La battaglia contro la privatizzazione dell’acqua
Sin dall’alba del nuovo secolo, Pesce manifesta un sensibile
          interesse per la politica locale. Da qui la spinta a candidarsi nel
          1905 alle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio provinciale
          di Bari. Grazie al voto dei suoi concittadini viene eletto consigliere
          provinciale per il mandamento di Mola per il settennio 1905-1912. L’amministrazione
          provinciale della terra di Bari era guidata da oltre ventidue anni
          dal senatore Nicola Balenzano, il quale si era fatto promotore nel
          1902 – in qualità di Ministro dei Lavori Pubblici – della
          legge che istituiva la costruzione dell’Acquedotto Pugliese.
          Da alcuni anni, pertanto, la popolazione della Puglia sitibonda viveva
          in un’atmosfera di rinascita, di autentica svolta epocale: non
          poteva nutrire alcuna diffidenza nei confronti di quel dono dello Stato
          che ben presto avrebbe mostrato il suo aculeo velenoso. Timeo Danaos
          et dona ferentes = Temo i Greci anche quando portano
          i doni scriveva Virgilio nell’Eneide. D’altra
          parte il termine tedesco gift sta a indicare il dono e, insieme,
          il veleno!
          Di fatto la legge Balenzano prevedeva che lo Stato si sarebbe fatto
          carico della costruzione dell’opera solo qualora la gara d’appalto
          per la costruzione dell’acquedotto fosse andata deserta. Viceversa,
          la legge prevedeva che la società privata che si fosse aggiudicata
          l’appalto della costruzione della rete idrica pugliese, facendosi
          carico di una parte dei costi dell’opera, avrebbe ottenuto la
          gestione novantennale dello stesso Acquedotto. Alla gara d’appalto
          si presentò una  «sola» ditta che ottenne la gestione
          dei lavori.
          Va da sé che i lavori procedevano con lentezza poiché la
          ditta appaltatrice era oltremodo interessata a procrastinare nel tempo
          il completamento dell’opera: il suo obiettivo era, infatti, quello
          di rallentare il più possibile i lavori per ottenere un vantaggio
          economico, derivante dalla variazione progressiva dei costi in corso
          d’opera.  E per di più Balenzano esercitava il ruolo
          ambiguo di Presidente del Consiglio Provinciale di Bari e, contemporaneamente,
          di consigliere di amministrazione della società  appaltatrice
          dei lavori per l’acquedotto.
          Preso atto di tale disegno e visti i legami inconfessabili fra la ditta
          appaltatrice e alcuni amministratori, Pesce si mise in gioco, ingaggiando
          dai banchi dell’opposizione una virulenta battaglia in seno al
          Consiglio Provinciale di Bari nei confronti della lentezza dei lavori,
          della gestione degli appalti e degli interessi privati, con l’obiettivo
          di rendere pubblica la gestione dell’Acquedotto stesso.
          Vitantonio Barbanente ritiene che nel 1911 fu ottenuta una parziale
          vittoria: la legge Sacchi prevedeva che la Società costruttrice «non
          avrebbe più anticipato le somme (capitale più  interesse
          del 5%) allo Stato per poi rivalersene con gli introiti dell’esercizio
          novantennale, ma trovava nello Stato stesso l’anticipatore di
          quelle somme, mantenendosi per altro immutata la concessione novantennale
          dell’esercizio. L’unico vantaggio, non certo compensatore
          del grosso sacrificio della pubblica amministrazione, l’abbreviazione
          di due anni del termine di consegna del primo stato dei lavori».
          Per Pesce l’unica innovazione positiva era la clausola che prevedeva
          la presentazione di un programma di costruzione con una precisa scadenza
          poiché per il resto osservava: «Non si comprende quale
          utile abbia trovato lo Stato ad affidare ad una società di milionari
          all’uopo improvvisata la costruzione delle diversissime opere
          murarie. Se lo Stato avesse direttamente appaltato tali lavori a veri
          costruttori, avrebbe risparmiato la provvisione ultrausuraia ritenuta
          dalla ditta in questo giro di capitali, avrebbe scelto gli accollatari
          più adatti pagandoli meglio; avrebbe controllato direttamente
          la bontà delle costruzioni; avrebbe con le somme risparmiate
          dato un impulso maggiore ai lavori».
          Emerge qui il vizio d’origine che ha avuto conseguenze
          esiziali sulla vita quasi secolare dell’Acquedotto Pugliese:
          proprio perché  erano interessati a guadagnare il più possibile,
          i costruttori privati approntarono senza cura i canali e gli invasi
          e utilizzarono materiali scadenti per le opere murarie, determinando
          il progressivo decadimento della rete idrica che si trasformò ben
          presto in un colabrodo.
          Contro il disegno di privatizzare la gestione dell’acquedotto
          che avrebbe dato più da mangiare (ai gestori) che
          da bere (alla popolazione), Pesce continuò la sua battaglia,
          scrivendo nel 1912 anche un libello L’Acquedotto Pugliese – Storia
          di un carrozzone.
          Nella denuncia dello scandalo, Pesce fu coadiuvato dal settimanale «La
          folla», diretto da Paolo Valera. A partire dal marzo 1913, sulla
          rivista milanese, l’«amico di Vautrin» – pseudonimo
          che Mario Gioda utilizzava quando firmava i suoi articoli su «La
          folla» – scrisse alcuni articoli al fine di rendere pubblico
          lo scandalo inerente alla questione dell’Acquedotto Pugliese
          nella prospettiva di infrangere il «cerchio di silenzio» intorno
          alle accuse del suo amico Pesce.
          Mario Gioda era già da un anno corrispondente da Torino per
          l’«Humanitas» e pertanto era in contatto epistolare
          con Pesce, al quale, in data 13 marzo 1913, scrive: «Avrei intenzione
          di portare sulla Folla la questione Acquedotto Pugliese. Leggo
          avidamente i tuoi lucidissimi articoli. Però non sono nel cuore
          della questione. Non saprei su quali spunti particolarmente insistere
          e scuotere con violenza o su quali uomini politici concentrare lo scandalo.
          Mandami qualche nota sommaria. Segnami in margine al tuo opuscolo i
          punti più interessanti. Per intanto questa settimana con un
          articolo, in cui mi terrò sulle generali, inizierò follaiolmente
          il dibattito. E’ tempo di infrangere questo cerchio di silenzio
          intorno alle tue accuse. Ne hai diritto. E qui, credimi, non è l’amico che
          parla, ma il collega».
          Nondimeno dalla lettera inviata da Gioda, in data 4 aprile 1913, a
          Pesce si evince che l’«amico di Vautrin» non condivideva
          il modo in cui il suo direttore aveva condotto fino ad allora la campagna
          di denuncia nei confronti dello scandalo dell’Acquedotto Pugliese: «Ho
          notato che hai accennato alla pagina della Folla su l’A.
          P. Ti ringrazierò quando mi farai avere il materiale per proseguire
          perché così come mi trovo, povero di documenti e di conoscenza
          del problema, sarei e potrei essere facilmente distrutto. Vero è che
          all’uopo non mancheresti di intervenire. Valera anzi desiderebbe
          avere lo scandalo dell’A. P. riesumato da te stesso. E’ poi
          mia personale impressione che come pubblicista la campagna mossa contro
          i responsabili dell’immane carrozzone sia da te condotta troppo
          cavallerescamente, troppo – non so se riesco a spiegarmi  – educatamente.
          Sei troppo generoso. In casi simili sono le pedate e le vociate che
          occorrono per affrettare l’interessamento pubblico. Con certa
          gente poi che ostenta un’insensibilità morale elefantesca,
          i riguardi e la cautela eccessiva non possono essere nella penna dell’epuratore».
          Dopo il 31 agosto del 1914 – termine perentorio di scadenza assegnato
          dalla legge Sacchi alla consegna del primo lotto di lavori –,
          la vicenda dell’Acquedotto Pugliese comincia a muoversi nella
          prospettiva indicata da Pesce: le inadempienze della società appaltatrice
          spinsero tutte le amministrazioni provinciali della Puglia a chiedere
          al Governo di attivarsi per affidare allo Stato sia il compito di portare
          a termine i lavori inerenti alla rete idraulica sia la gestione dello
        stesso acquedotto.




