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Nicola Fanizza

PIERO DELFINO PESCE

Capitolo I

L’avventura editoriale di «Aspasia»
 (1899-1900)

Gli anni napoletani

La visione dalla terrazza della casa paterna – che dà sul grande giardino del palazzo dei Pesce – dei filari di peonie e di alberi rari ed esotici; il profumo intenso e inebriante che esalava in primavera dai fiori degli alberi di limone; lo stupore che investiva lo sguardo quando, a volte, si individuava sui rami di quegli alberi la presenza di uccelli dai colori sgargianti e dalla forma straordinaria; i ricordi di mia madre che da quella terrazza si era trovata casualmente ad osservare i rituali amorosi che avevano come protagonisti due fratelli (figli di Piero Delfino Pesce) e due sorelle (figlie di Vincenzo Fanizza), che abitavano in una casa contigua al giardino; la prossimità distanziante da una persona di cui i miei genitori parlavano spesso; il debito inconfessabile che si ha nei confronti del proprio padre; e, infine, il desiderio di scrivere qualcosa che abbia comunque a che fare con la città in cui si è nati. A tutto ciò va aggiunto la casualità legata a un furto: i ladri riuscirono a trafugare parte dei mobili – che, dopo la vendita del palazzo, erano stati trasferiti nella casa dello scrivente –, però, fortunatamente, abbandonarono per terra le lettere contenute in un comò. Sono più o meno queste le motivazioni che – insieme alla lettura di alcune di quelle lettere – hanno dato luogo alla presente ricerca, che è incentrata sulla figura di Piero Delfino Pesce e sulle sue imprese editoriali: la rivista quindicinale «Aspasia» (1899-1900) e la rivista settimanale «Humanitas» (1911-1924). Fu chiamata Humanitas anche la sua casa editrice.
Piero Delfino Pesce nacque a Mola di Bari il 1° giugno del 1874. Era il primo di sette figli di un uomo di idee liberali e repubblicane che da ragazzo era scappato da casa per arruolarsi, allo scoppio della terza guerra di Indipendenza, nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e che sempre fu molto attento alla educazione dei suoi figli.
Dopo aver conseguito nel 1892 la maturità classica presso il liceo di Molfetta, Pesce si trasferì in Campania per frequentare la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Qui incontrò Niccolò van Westerhout, un giovane musicista di Mola che viveva da alcuni anni nella città partenopea. Il compositore di origine olandese aveva rifiutato di seguire pedissequamente la tradizione operistica italiana e aveva cercato di svecchiarla, rifacendosi principalmente a Riccardo Wagner. La prima rappresentazione del Cimbelino di Van Westerhout era andata in scena, nel Teatro Argentina di Roma, l’8 aprile 1892. E in quell’occasione il pubblico, insieme alla critica, aveva accolto in modo lusinghiero l’esecuzione dell’opera. Da qui la visibilità pubblica del suo autore e i suoi legami con i maggiori rappresentanti della cultura napoletana del tempo. Van Westerhout, infatti, instaurò rapporti amicali con Giulio Massimo Scalinger, Roberto Bracco, Arturo Colautti, Salvatore di Giacomo e Gabriele d’Annunzio.
A proposito di quest’ultimo, va detto che visse a Napoli dal 1891 alla fine del 1893 e sembra ormai certo che van Westerhout abbia contribuito alla sua iniziazione «wagneriana». D’Annunzio andava a trovare spesso il musicista molese nella sua casa e, come si evince dalla testimonianza del comune amico Salvatore Procida, «teneva per ore e ore van Westerhout al piano. Credo che avremo letto, in meno di un anno, dieci volte il Tristano e Isotta. Gabriele scriveva in quel tempo il Trionfo della morte. Tristano ne occupava lo spirito con una morbosa ossessione. Voleva udire e riudire il preludio assillante e pigliava appunti e quasi si attaccava cogli occhi alla pagina che inizia con la tortura del filtro».
Un anno dopo la morte di van Westerhout, avvenuta il 21 agosto 1898, Pesce farà stampare, in memoria del giovane compositore, un numero doppio di «Aspasia». Sempre su questa rivista, nel fascicolo del 25 novembre 1900, verrà riprodotto un articolo del «Mattino» di Napoli, Doña Flor a Breslavia. Si tratta della traduzione dal tedesco di una recensione – apparsa sul quotidiano della Slesia «Schlesische Zeitung» – inerente alla messa in scena, nel Lobe-Theater di Breslavia, della Doña Flor di van Westerhout. Qui l’«anonimo» critico musicale tedesco dice di aver «assistito a un vero trionfo, per quanto postumo di un talento musicale indiscutibile»; che quella di van Westerhout è una «musica piena di fuoco, di profonda efficacia drammatica, ricca di passione e di colorito»; e, infine, che «Doña Flor si darà presto ad Amburgo e Dresda».
Pesce, durante gli anni napoletani, segue le lezioni di Giovanni Bovio, il quale contribuisce in modo sensibile alla sua formazione intellettuale e politica. Tuttavia in questo periodo i suoi interessi sono precipuamente musicali: «A Napoli come talvolta avviene – scrive Pesce –, fioriva la primavera lirica. Al San Carlo, che i giornaletti umoristici avevano ribattezzato San Gaetano per la invadenza, in cartellone, del repertorio donizzettiano, De Lucia e Battistini; al vecchio Fondo, rimesso a nuovo col nome di Mercadante dalla Ditta Sonzogno per cura del leccese Nicola Dasparo, repertorio francese con tenore Castellano e il soprano Agresti, che era una Aida insuperabile. Ma noi studenti si andava più volentieri al Bellini, non perché il posto costasse meno, che gli studenti che non sgobbano non hanno di queste malinconie, ma perché avevamo scoperto un giovane tenore meraviglioso, giovanissimo e già tanto tanto bravo, ed eravamo come fieri e gelosi della valorizzazione di questa nostra scoperta. Vi andavamo per Caruso, e anche e più, per Annina Franco, che, in Faust, era una Margherita ideale, bella brava squisita appassionata cantatrice di cui eravamo tutti pazzamente innamorati, come si può essere innamorati a diciotto anni, quando si distingue assai bene il fascino dell’arte da tutte le altre cose.
Seguitammo in seguito a informarci del tenore nostro e di Annina nostra. Costei non fece più carriera e ne restammo come personalmente offesi, poi che avevamo riposto in lei tanta nostra fiducia. Ma Caruso compensò a usura le nostre aspettazioni. Però non immediatamente. L’anno dopo lo incontrai una sera al Gambrinus e mi disse con rammarico che aveva inutilmente aspirato a essere l’interprete, nella mia Mola, della Doña Flor, del van Westerhout, scritta per la inaugurazione del nostro piccolo Comunale. Gli era stato preferito, con il baritono Buti e la Bulicioff, il tenore Angioletti, che era stato al S. Carlo un dolcissimo Lohengrin. “Già: io non sono ancora celebre!” mi disse con quell’aria bonaria e spavalda propria dei napolitani di genio che, come i bambini, sentono Achille in seno, con la certezza che non mancherà mai il tempo per metterlo fuori».
Frequenta i caffè, i concerti, i teatri e, attraverso la mediazione di van Westerhout, entra in contatto col variegato ambiente culturale napoletano.
Diventa amico di Roberto Marvasi, un raffinato intellettuale che in seguito fonderà e dirigerà la «Scintilla». Su questa rivista scriverà alcuni articoli in cui denuncerà i legami fra camorra e politica e fra camorra e polizia. Il tema della collusione fra la delinquenza organizzata e lo Stato è, inoltre, presente nel saggio Malavita contro malavita, che Marvasi pubblicherà, nel 1928, a Marsiglia, dove si è rifugiato per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Si tratta di un opuscoletto che raccoglie una serie di conferenze che egli tenne presso la Sezione del PRI di Marsiglia sul tema della diffusione della criminalità nel Meridione d’Italia negli anni immediatamente successivi alla repressione del Brigantaggio e sull’uso politico che i governi post-unitari fecero di camorristi, mafiosi e delinquenti vari. E’ questo un approccio di straordinaria attualità poiché le sue tesi hanno trovato una ennesima conferma negli accadimenti della nostra storia recente. Questa amicizia continuerà nel tempo ed è testimoniata dalle lettere che Marvasi inviò a Pesce nel corso del 1922.
Sempre a Napoli entra in contatto con Alfredo Catapano, un poeta e scrittore destinato a seguirlo, alcuni anni dopo, nell’avventura editoriale di «Aspasia». La sua visibilità pubblica non era, comunque, legata alla produzione artistica, ma a un evento della vita della Napoli di quegli anni. Catapano era, infatti, anche un valente avvocato e, in tale veste, aveva patrocinato la difesa di una ragazza veneta sedotta da un ufficiale di cavalleria. Recatasi nella villa comunale presso il galoppatoio dove l’ufficiale si esercitava per chiedere aiuto per il figlio che doveva nascere si sentì rispondere: «Portalo all’Annunziata». La donna aveva una rivoltella con sé e uccise il cinico seduttore.
L’arringa terminò con queste parole: «Liberatela in nome di tutte le donne che soggiacquero alla violenza, all’inganno, alla frode; di tutte le donne che per un bisogno d’amore credettero alla bontà e alla sincerità delle false promesse; di tutte le donne esposte al vizio, alla miseria, alla fame e che trovano la virtù di risorgere, di vivere e di rigenerarsi nell’amore e nella protezione di un figlio». La Bella Veneziana fu assolta e Napoli impazzì di gioia. Centinaia di donne lo portarono in trionfo cantando in coro: «tu hai difeso a causa, Alfredo Catapano, e mò ‘a gente ‘e mane sbatteno pe’ttè».
Matilde Serao commentò la vicenda: «Se si uccidessero tutti gli uomini che vedono una bella ragazza e se ne innamorano, non crescerebbero più gli uomini». Animo tormentato e malinconico, Catapano morì di morte volontaria il 28 febbraio 1927. Giovanni Napolitano, anch’egli avvocato e poeta, nonché padre del nostro Presidente della Repubblica, gli dedicò un libro e una intensa poesia, Illusione di eterno, che si configura come un potente inno alla vita.

 

 

Il «cdp» è diretto da Nicola Fanizza