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Le trame e le rappresentazioni

(a cura di Vitangelo Magnifico)

A partire dal giugno 2014, Vitangelo Magnifico – profondo conoscitore della produzione teatrale di Piero Delfino Pesce  - ha pubblicato su “Città nostra” diversi articoli incentrati sulle rappresentazioni e sulle trame delle sue commedie. E noi lo ringraziamo per averci dato la possibilità di pubblicare i suoi articoli, che qui riportiamo nell’ordine con cui sono apparsi sul periodico molese: 132, 134 e 137 del 2014; e 142, 144, 145, 146, 147 del 2015.

Le locandine, le scene e gli attori

 

Le trame

Un episodio*

di Vitangelo Magnifico

Piero Delfino Pesce nacque a Mola il 1° giugno del 1874. In occasione del Primo Centenario della Nascita, nell’ambito delle manifesta­zioni commemorative, d’intesa con l’Amministrazione Comunale, la Compagnia Filodrammatica Molese, diretta da Lucio Delfino Pesce, mise in scena quattro opere delle tredici scritte da P. D. Pesce. Gran parte di queste erano rimaste inedite malgrado l’apprezzamento di grandi registi teatrali suoi contemporanei e l’impegno teatrale del grande intellettuale con i giovani molesi della originaria Filodrammatica da lui fondata. A Napoli, da giovane, aveva fatto rappresentare La Moglie; a Chicago, il 22.12.1937, la Compagnia di Loris Giz­zi portò in scena per la prima volta La Novella del Natale, mentre il 14.01.1938, al Teatro delle Arti di Roma, con la regia di Anton Giulio Bragaglia, fu rappresentata la commedia Una Partita a Carte. Fu preparando La novella del Natale con i giovani fi­lodrammatici molesi che Piero Delfino Pesce accusò l’attacco di angina pectoris che, il pomeriggio dell’11 dicembre del 1939, pose fine, a 65 anni, alla sua vita. In occasione del Primo Centenario della Nascita, dal 31 maggio al 3 giugno 1974, la Compagnia Filodrammatica Molese mise in scena al Teatro “N. Van Westerhout” il dramma in tre atti Un episodio, ambientato in Francia durante la Prima Guerra mondiale, poco prima della conclusione della drammatica Battaglia di Verdun fra gli eserciti Francese e Tedesco (Febbraio-Luglio 1916).


Trama dell’opera:  Abigaille Champion L’Epècroisèe (Anna Maria Santoro), di nobili origini, è la giovane sposa di Enrico Champion (Vitangelo Magnifico), giovane sincero ed intelligente di umili origini, momentaneamente sotto le armi al fronte franco-tedesco. Maria, vedova L’Epècroisèe (Mariella Pinto), madre di Abigaille, non ha gradito il matrimonio della figlia che durante l’assenza del genero spinge fra le braccia di un giovane nobile ufficiale (Donato Roca), imboscato in una tranquilla guarnigione di paese. A niente valgono le opposizioni del debole Abate Demaitre (Giuseppe Pesce), amico di famiglia. Durante la licenza di Enrico, convalescente per le ferite riportate a Verdun, Abigaille  riscopre l’amore per il marito e, sopraffatta dal pentimento per l’offesa arrecatogli, quando questi riparte per raggiungere il suo reparto in grave difficoltà contro i tedeschi, si uccide con il veleno. Completa il gruppo dei personaggi Clotilde, la cameriera, interpretata da Nicoletta Saba.
La sera del 1° Giugno, prima della rap­presentazione, il Prof. Vitantonio Barba­nente, allora Assessore Provinciale, tenne una relazione sull’impegno politico di Piero Delfino Pesce.
La Compagnia Filodrammatica Molese, in seguito metterà in scena di Piero Delfi­no Pesce: Le Due Rose (18-21 Ott. 1974, con successive numerose repliche), La Piccola Vita (9-12 Mag. 1975) e La No­vella del Natale (19-22 Dic. 1975).

* Vitangelo Magnifico, Un episodio,  in “Città nostra”, a. XIII,  n. 132, giugno 2014.

Le due rose*

di Vitangelo Magnifico

Dopo la rappresentazione di “Un episodio” (Vedi Città nostra, n. 132, Giugno 2014), di Piero Delfino Pesce la Compagnia Filodrammatica Molese mise in scena la commedia in tre atti “Le due Rose”, le cui prime rappresentazioni si ebbero nei giorni dal 18 al 21 ottobre del 1974 con una ventina di repliche successive comprese quelle realizzate l’anno successivo dal 29 agosto al 1° settembre per soddisfare la richiesta degli emigrati ritornati a Mola per la Festa Patronale. Senza niente togliere alla coerente ed elegante impostazione dell’opera e alla credibilità dei fatti rappresentati, è innegabile che gran parte del successo della commedia fu dovuto al fatto che venne recitata in dialetto molese mentre l’Autore l’aveva scritta in italiano.
Gli ambienti, i fatti raccontati, le circostanze, i cognomi e il linguaggio dei personaggi chiaramente riferiti alla nostra comunità fecero subito propendere per una traduzione in dialetto, idea che all’inizio fu poco gradita da Lucio Delfino  Pesce, figlio dell’Autore e Direttore artistico della Filodrammatica, che era molto geloso delle opere del padre. Si arrese solo dopo aver ascoltato la lettura del primo atto tradotto in molese dallo scrivente. Così si poté procedere alla traduzione dei restanti due atti.
La realizzazione fu alquanto impegnativa sia per il numero dei personaggi (15) che per la realizzazione delle tre scene che rappresentavano, nell’ordine, il piano terra di una tipica casa contadina dell’inizio del 1900, il vano del primo piano di una tipica casa molese e la sala d’aspetto della nostra stazione ferroviaria. A ciò si aggiungeva la modesta abitudine degli attori più giovani a parlare in dialetto. Inutile aggiungere che la scrittura del dialetto sul copione fu molto impegnativa ed improvvisata: Terry Mildare il canadese studioso del molese, arriverà a Mola cinque anni dopo.
Piero Delfino Pesce, molto attento ai fenomeni politici e sociali, non poteva ignorare in una sua commedia la realtà dell’emigrazione con tutti i risvolti famigliari. Infatti la trama de “Le due Rose” - che prende il titolo dal nome delle due donne di nome Rosa, che si contendono Pietro - è ambientata negli anni venti/trenta del secolo scorso quando già era diventata imponente l’emigrazione dei molesi verso gli Stati Uniti.

Atto I° - Pietro Comes (Franco Roca) ha lasciato a Mola la giovane moglie Rosodda (Nicoletta Saba) e la piccolissima  Ingravallo)  per cercare fortuna in America. La solitudine fa si che Rosodda ceda alle lusinghe del giovane Andrea Mirota (Carlo Scarimbolo). Anche il compare Luigi Matera (Vitangelo Magnifico) ha dovuto reprimere il suo interesse per la medesima. Pietro, ignaro della vicenda, sta per tornare a Mola. Sua madre, la vedova Anna MariaComes (Anna Pesce), con un cuore malandato, i figli Giuditta (Doretta Grisanzio) e Sante (Giovanni Castiglione), il medico di famiglia Giuseppe Vitali (Giuseppe Pesce) e l’avvocato Filippo Dolfi (Francesco Marinelli) aspettano l’arrivo di Pietro discutendo ed analizzando l’incresciosa faccenda famigliare. Arriva Pietro che nota l’assenza della moglie, che nel frattempo si è rifugiata con la piccola in casa di una amica, Filomena (Anna Maria Santoro). Pietro scoperto il tradimento della moglie è furente e vuole fargliela pagare. L’avv. Dolfi cerca di calmarlo e lo invita a comportarsi bene per non passare dalla parte del torto.

Atto II° - La scena si apre con Rosodda che cuce a macchina mentre Annucia gioca con la sua bambola. Filomena porta via la bimba perché sono attesi per parlare con Rosodda, nell’ordine, Luigi e Pietro. Intanto Andrea si presenta all’improvviso, come al solito attraverso le scale che portano al terrazzo, per convincere Rosodda a non mollarlo; Luigi che prepara l’arrivo di Pietro, le dichiara il suo amore represso; Pietro vuole un chiarimento con la moglie anche per recuperare l’onore e la figlia.

Atto III° - La scena si svolge nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Mola e rappresenta una classica riunione per salutare un amico o un parente in partenza per Napoli per imbarcarsi sulla nave che lo porterà a New York. Qui, con  grande abilità, Piero Delfino Pesce, rappresenta anche tutti gli altri personaggi che fanno da cornice alla storia principale evidenziando i tipici comportamenti sia dei molesi verso gli emigrati che hanno fatto fortuna che delle giovani che cercano di accalappiarne uno come marito spinte dalle mamme e degli emigrati che tornano e fanno sfoggio della fortuna acquisita e della nuova lingua imbastardita con il dialetto. Pietro sta per partire; alla stazione vanno a salutarlo Rosina, la sua nuova fiamma, e sua madre Isabella (Angela De Serio); Pietro tratta in malo modo Rosodda che fa un ulteriore tentativo di recuperare il marito mentre il facchino della stazione, Giuseppe (Pinuccio Tanzi), fa da guardia alla sala d’aspetto impedendo ogni accesso estraneo. Davanti al rifiuto di Pietro, Rosodda tenta il suicidio gettandosi sotto il treno che fortunatamente la sfiora. Pietro capisce che la fiammella iniziale in entrambi non si è spenta; si ravvede e promette di portare con sé moglie e figlia. La delusa Rosina fino allora sollecitata dalla mamma a non farsi sfuggire Pietro, vista la partita persa cerca di accalappiare un altro molese d’America, Giacomo Capanera (Peppino Tanzi) venuto alla stazione per salutare l’amico.
Nella messa in scena de Le due Rose determinante fu la collaborazione del personale del teatro a cominciare dall’indimenticabile Peppino Pavone (Macchine e luci), di Angela Maria Brunetti (Scene), di Donato Roca (Direttore di scena), di Mimmo Martinelli e Isa Saba (Suggeritori), il tutto sotto la guida dell’abile regia di Lucio Delfino Pesce, la cui scomparsa nell’autunno del 1993 decretò la fine della Filodrammatica Molese.
Dalla lettura del testo è possibile risalire a fatti veramente avvenuti e a personaggi veramente esistiti a Mola: l’Avv. Dolfi è lo stesso Piero Delfino Pesce e il medico è il Dr. Vitulli; così come tra gli interpreti è possibile riconoscere gli allora giovani studenti e laureati molesi che diventeranno prestigiosi dirigenti, professionisti e docenti, che ebbero nella Compagnia Filodrammatica una efficace palestra di vita e d’impegno sociale e culturale.
È innegabile che la rappresentazione de “Le due Rose” è stato il più grande successo teatrale di Mola. Purtroppo, nell’arco di quarant’anni non è stata mai più ripresa. Pur mancando al momento l’attività teatrale di quell’epoca, la bellezza dell’opera e il debito di riconoscenza della comunità verso il suo Autore dovrebbe periodicamente invogliare la rappresentazione e di questa e delle altre opere. In particolare, la presenza di una buona compagnia dialettale attualmente operante da noi renderebbe fattibile una nuova edizione.
L’anno successivo, La Compagnia  Filodrammatica Molese continuò l’azione di recupero delle opere teatrali di Piero Delfino Pesce mettendo in scena La piccola vita (9-12 maggio 1975) e la Novella del Natale (19-22 dicembre 1975). Di queste scriveremo nei prossimi numeri di Città nostra.

* Vitangelo Magnifico, Le due rose,  in “Città nostra”, a. XIII,  n. 134, settembre 2014.

La novella del Natale*

di Vitangelo Magnifico

Nel “Saggio storico su Mola”(1964, Dedalo Litostampa, Bari), Nicola Uva così descrisse gli ultimi istanti della vita di Piero Delfino Pesce: “Interpretata da bravi dilettanti molesi, nel trigesimo della morte del Pesce, sulle scene del Comunale di Mola, fu rappresentata la “Novella del Natale” che la Filodrammatica molese aveva iniziato a concertare sotto la regia dello stesso Autore, il quale la sera dell’11 dicembre 1939, alle ore 17, nella sala prove, colpito da improvviso malore, si abbattè esanime, cadendo così sulla breccia. Passò come visse: assertore e artefice di un ideale di arte, d’amore, di giustizia, di umana fratellanza”.
 Caratteri che Piero Delfino Pesce aveva incluso in questa sua opera teatrale, che, con la morte durante la messa in scena, assurgerà al ruolo di testamento morale. Pertanto, i giovani della nuova Compagnia Filodrammatica Molese, diretta da Lucio Delfino Pesce, non potevano, durante le celebrazioni del I° Centenario della Nascita dell’Autore (1874-1974) non rappresentare questa opera, che andò in scena al “van Westerhout” nei giorni dal 19 al 22 dicembre del 1975.

La Novella del Natale”, scritta nel 1934, è la sesta opera teatrale di Piero Delfino Pesce. È certamente quella che ha beneficiato del maggior numero di edizioni dal momento che, prima delle due molesi del 1940 e del 1975, era stata portata in tournée nelle due Americhe  dalla Compagnia del grande attore Loris Gizzi con una prima assoluta a Chicago il 22 dicembre 1937.
La novella del Natale”, scena unica, è ambientata in Sardegna in una facoltosa famiglia di agricoltori-pastori nella quale predomina la figura di Don Bastiano Pintu, vedovo, che, alla morte di una sorella, ha accolto in casa la nipotina Viola e la coetanea sorella di latte Annica rimaste orfane. Mariagrazia, che è qualcosa in più di una serva, sovrintende alle faccende domestiche e familiari. Di casa sono il prete, Don Emilio, l’amministratore dell’azienda agricola Corrado e i pastori grandi e piccoli. La famiglia Pintu è in lite anche sul piano politico con la famiglia Zamfagna.

Atto I° - Bastiano (Giuseppe Pesce) entra in scena strattonando la diciottenne Annica (Giovanna Mazzotta) perché vuol sapere chi è l’uomo che Mariagrazia (Rosa Bellantuono) ha visto uscire di notte dalla sua stanza. Malgrado le minacce e qualche percossa con il frustino da cavallerizzo, Annica non cede; arriva Don Emilio (Francesco Marinelli) che convince Bastiano ad affidare Annica a Viola (Nicoletta Saba) poiché fra coetanee si confidano. Intanto arriva Corrado (Vitangelo Magnifico) per comunicare al padrone di aver risolto in Comune una questione tributaria. Giunge trafelato il giovane pastore Puddu (Giacomo Masucci) che comunica che un incendio ha distrutto le stalle e il fienile della località “Mantellata” dove le mandrie e le greggi vengono portate per l’alpeggio. Puddu interrogato sull’accaduto appare molto confuso perché, a suo dire, dormiva all’inizio dell’incendio. Bastiano organizza la partenza per Mantellata per accertarsi dei danni e riportare al piano le bestie, tutte messe in salvo grazie alla perizia del pastore Michele (Angelo Liotine). Bastiano invita Don Emilio a trattenersi quanto più è possibile da loro durante la sua assenza anche perché mancano pochigiorni al Natale e bisogna finire il Presepe appena abbozzato su un tavolo al lato della scena, che resta vuota. Appare il giovane pastore Tonio (Nicola Gino) che fa fatica a trattenere il giovane laureato Santu Zamfagna (Donato Roca) che vuol parlare con Annica della quale è innamorato perso. Era lui che la notte si era introdotto furtivamente nella stanza della ragazza e le aveva strappato un bacio.
Annica pensa di essere in peccato mortale e teme la scomunica da parte di Don Emilio. Santu la incoraggia a manifestare il loro amore e a non temere la reazione di suo zio, che odia i Zamfagna. Entra Viola che cerca la sorella e vede Santu al quale chiede conto della sua presenza anche perché Annica si è confidata con lei circa l’avvenimento della notte scorsa. Santu e Anica pregano Viola di intercedere presso lo zio baciandole le mani. Lei li scaccia verso le due uscite. Alza gli occhi al cielo e sospira: “Beati loro”.

Atto II° - Mariagrazia racconta alle ragazze un particolare del mancato matrimonio fra Bastiano e la ricca Mariannina Zogu, che sposerà, invece, il giovane medico Marcantonio Zamfagna che aveva
messo in giro la falsa notizia di una grave malattia che avrebbe colpito lo zio al quale restava poco da vivere. Marcantonio e Mariannina non ebbero figli ed allevarono il nipote Santu come un figlio mandandolo a studiare a Roma. Al racconto assiste Don Emilio che prepara, aiutato dalle ragazze, il presepe e che interviene per rimproverare benevolmente Mariagrazia per i pesanti giudizi espressi sui personaggi avversi a lei e al padrone. Don Emilio invia Mariagrazia e Annica a raccogliere altro muschio e resta solo con Viola che gli svela il nome dell’innamorato della sorella e aggiunge qualche particolare sul rapporto fra lo zio vedovo e Mariagrazia. Entra Tonio che comunica che è stato arrestato Santu poiché Puddu ha confessato di averlo visto aggirarsi per la “Mantellata” e fuggire a cavallo subito dopo l’incendio. Corrado, per ordine del padrone è andato a denunciarlo ai Carabinieri. Entra in scena Corrado e racconta dei danni e della denuncia sporta. Aggiunge che l’indomani uomini e bestie torneranno a casa per  trascorrere la vigilia di Natale tutti insieme come da tradizione. A nulla valgono la meraviglia e le obiezioni di Don Emilio e Viola per dissuadere Corrado, che, invece, è fermamente convinto della colpevolezza di Santu. Don Emilio, ragionando sulle contraddizioni dei racconti forniti da Puddu sull’incendio, è sempre più convinto dell’innocenza di Santu e si propone di andare dai Carabinieri per impedire un grave errore. Restati soli, Corrado chiedea Viola quale è il motivo per cui Santu le sta tanto a cuore. È forse innamorata del giovane laureato? Intanto lui ha deciso di partire e ritornare in Sicilia per ricongiungersi alla mamma dopo l’allontanamento giudiziario dalla terra d’origine. E racconta della sua vita, dell’impegno politico clandestino da tipografo che stampa un organo antiregime. La segretaria tradisce il gruppo facendo cadere l’accusa su di lui che non compare nella lista dei sovversivi scritta sulla carta intestata della tipografia. Al beffardo sorriso di lei perde la ragione e la colpisce con il pesante martello di tipografo. Sarà assolto perchè l’azione fu involontaria ma sarà costretto a lasciare l’isola. Lo accoglie in Sardegna Don Bastiano Pintu che lo tratta come uno di famiglia e dove vive solo per la luce dello sguardo e per il suono della voce della nipote preferita del padrone: Viola, appunto. Don Emilio entra festoso e comunica di aver scongiurato l’errore con l’unica bugia detta nella sua vita di prete.
Intanto Corrado scompare. Viola prega Don Emilio di intervenire per non farlo partire. Il prete capisce, alza gli occhi al cielo e benedice un altro amore.

Atto III° - Nevica. Viola ha fatto chiamare Corrado, che le comunica la decisione di non partire per non lasciare il padrone da solo ad affrontare la difficile situazione. È stato Don Emilio a persuaderlo. Corrado appare rammaricato per aver aperto il suo cuore la sera prima e aver comunicato aspetti della sua vita tenuti segreti. Chiede a Viola di dimenticare quanto detto la sera precedente; ma questa appare divertita e risponde con sarcasmo. Entra Annica che comunica l’arrivo delle mandrie e degli uomini.
Intanto si fa sera e iniziano ad arrivare le famiglie per la cerimonia della nascita del Bambino. Don Emilio organizza la processione che fa il giro dei diversi ambienti della casa e delle stalle. Don Emilio, che li attende presso il Presepe, prende per un orecchio Puddu e lo costringe a dire la verità con la minaccia delle fiamme dell’inferno. Puddu racconta che la causa dell’incendio fu una candela abbattuta sul fieno da un ratto mentre il pastore Michele operava una pecora. Operazione comunemente fatta all’esterno ma che quella sera fu fatta nel fienile perchè nevicava e faceva freddo. Aveva accusato Santu perché il padrone lo aveva istigato con le domande e lui non voleva contraddirlo. Entra la processione e Don Emilio, su invito di Bastiano, fa la predica tutta incentrata sulla natura, sull’amore e sulla verità, solleticando il pentimento di Puddu, che preso dalla paura di finire all’inferno, tutto eccitato, racconta la verità. Bastiano vuole correre a riparare il danno fatto a Santu, che per ammissione di Annica era con lei quella notte per rubarle un bacio.
Compare Santu che accetta le scuse e chiede la mano della sua amata fra l’ammirazione e gli applausi dei presenti. Il cruccio di Viola è evidente; e dichiara anche lei l’amore per Corrado. In disparte Bastiano chiede a Don Emilio se non è giunta l’ora anche di regolarizzare la sua posizione con Mariagrazia. Don Emilio lo invita a pensarci con giudizio visto che non ci sono figli. Ha una notizia da dare: il nuovo Vescovo lo ha nominato rettore del seminario; quindi dovrà lasciare questi luoghi che non pensava mai di abbandonare.
Fra i testi teatrali di Piero Delfino Pesce, quello de “La novella del Natale” è il più complesso ed il meglio costruito anche se può apparire di maniera e con il lieto fine. La complessità previene soprattutto dalla filosofia di vita dell’autore che affida ai personaggi principali attraverso lunghi monologhi. Già dai dialoghi del primo atto si acquisiscono alcuni particolari della ruggine fra le due famiglie Pintu e Zamfagna nonché le vicissitudini della vita di Bastiano, Mariagrazia, Don Emilio e Corrado che vengono inseriti nei momenti di contrasto fra i personaggi.
Come non avvertire la necessità da parte di un autore profondamente laico di affidare un messaggio di amore, di pace e di giustizia ad un prete, che sembra anticipare i preti detective di alcuni romanzi o sceneggiati televisivi di molti decenni successivi. Non sfugge al lettore o allo spettatore neanche la figura di Corrado che racchiude alcuni tratti dell’Autore, che fu antifascista ed editore di due importanti riviste per la cultura e la politica del Meridione (“Aspasia” e “Humanitas”) chiuse sostanzialmente con violenza, per volere politico. Al personaggio della sua opera fa dire: “Io avevo rilevato una piccola tipografia e l’avevo postaa disposizione del movimento. In essa si stampava l’organo ufficiale del gruppo giovanile, “La Riscossa del Caruso”; vi convenivano i più accesi; io vi ero a un tempo direttore, scrittore, tipografo”.
Infine, va ricordato che la realizzazione del lavoro teatrale fu possibile anche grazie agli attori dilettanti della Filodrammatica che si prestarono a fare da comparse (I Signori: Pinuccio e Peppino Tanzi e Giovanni Castiglione; Le Signore: Mariella Deserio e Rosa Bellino; Le Bambine: Anna e Rosanna Ingravallo, Nilla Saba e Sabrina Ruggieri) e all’impegno di Mimmo Marinelli (Direttore di Scena) e dei compianti ed indimenticabili Isa Saba (Suggeritrice), Peppino Pavone (Tecnico delle luci) e Lucio Delfino Pesce (Direttore artistico).

* Vitangelo Magnifico, La novella di Natale,  in “Città nostra”, a. XIII,  n. 137, dicembre 2014.

La piccola vita*

di Vitangelo Magnifico

A conclusione delle manifestazioni delle celebrative del Primo Centenario della nascita di Piero Delfino Pesce (1874-1974), dal 9 al 12 maggio del 1975, la Compagnia Filodrammatica Molese rappresentò La piccola vita, commedia in tre atti, scritta nel 1934 dal grande intellettuale e politico molese. Nell’ordine cronologico indicato dall’Autore, quest’opera rappresenta la quinta delle tredici complessivamente scritte, seguita, sempre nello stesso anno, da La novella del Natale, Un episodio e Ricordo di Napoli.
Tra le motivazioni che indussero i giovani attori della Filodrammatica a scegliere questa commedia per chiudere il ciclo dedicato a Piero Delfino Pesce ci fu la constatazione della sua volontà di affidare a questa opera teatrale le sue considerazioni sui risultati dell’oppressione fascista sulle condizioni di vita dei suoi avversari - antifascisti ed ebrei - che da condizioni agiate e dignitose mutarono in una vita fatta di stenti e sacrifici a causa della perdita del lavoro e/o dell’emarginazione sociale. È un periodo di grandi trasformazioni sociali dove arrivisti e rampanti senza scrupoli sottomettono i deboli e gli onesti. Una condizione che lui stesso all’epoca stava attraversando per la perdita dell’insegnamento a causa del suo coerente antifascismo che lo aveva già portato ingiustamente a soffrire un periodo di carcerazione.
È il periodo che lui stesso definì di forzata inazione, che riempì dipingendo e scrivendo per il teatro utilizzandolo per trasmettere velatamente le sue idee, anche senza fare riferimento specifico al periodo storico e politico che la Nazione attraversava. In quest’opera, infatti, l’impoverimento della Famiglia Zuccari è attribuita alla prematura morte del capo famiglia, persona onesta e per bene, i cui figli devono subirne le conseguenze: il ragazzo abbandonando gli studi di ingegneria malgrado la sua bravura nel disegno e nel calcolo e diventando il collaboratore del geometra, che oggi chiameremmo “palazzinaro”, che lo sfrutta, lo denigra e gli soffia la fidanzata; e la giovane figlia, che, pur essendo un’apprezzata maestra, resta supplente e viene compromessa dal rampante geometra.
La piccola vita è ambientata in un piccolo paese dell’Avellinese (Dentecane) negli anni in cui viene scritta e si avvale di una sola scena per i tre atti che l’Autore così descrive:  Stanza da lavoro e da studio in un appartamento a piano terra rialzato. A destra una porta che dà nella sala d’ingresso e nella cucina. A sinistra una porta che dà nelle camere. In fondo una finestra che dà sulla strada, e, dai lati, verso destra un trofeo d’armi, verso sinistra uno scaffale portante libri, cartelle, strumenti tecnici.
Innanzi allo scaffale una grande tavola da disegno su due trespoli. Fra le due porte e la ribalta due divanetti e  oltroncine.

Atto I° - È mattino. Maddalena, vedova Zuccari (Anna Pesce), trova il figlio Enrico Zuccari (Donato Roca) chino sul tavolo da disegno sul quale ha lavorato tutta la notte mentre la figlia, Rosalia Zuccari (Anna Maria Santoro), ricama. Maddalena rimprovera al figlio di lavorare molto a quei disegni pur riconoscendo che il padre era anch’egli un grande lavoratore tanto che la sua prematura fine era stata attribuita a questa sua abitudine. Lei vorrebbe che il figlio, invece, utilizzasse il tempo per studiare e lo invita a riprendere gli studi abbandonati per le ristrettezze  economiche in seguito alla morte del capofamiglia. Maddalena rimprovera al figlio di dedicare troppo tempo ai progetti del geometra Carlo Tagaroli (Vitangelo Magnifico), che lo ricompensa con pochissimo denaro in più maltrattandolo e denigrandolo fingendo di non apprezzare ciò che Enrico produce. Rosalia rimprovera al fratello l’ingenuità e non nasconde l’astio per il Tagaroli. Enrico esce per portare il disegno a Carlo mentre Rosalia va in cucina ad aiutare la cameriera Lucrezia (Carmela Santoro). Questa annunzia a Maddalena la visita di Don Sabino Montanari (Giovanni Castiglione),gentiluomo di campagna, grande amico di famiglia, molto affezionato ai ragazzi, che ha portato in dono delle stupende pere, frutto delle nuove varietà impiantate del suo podere. Don Sabino è scapolo e sente la solitudine che vorrebbe colmare sposando Maddalena anche per poter migliorare la situazione finanziaria della famiglia e permettere ad Enrico di continuare gli studi all’Università di Roma. Maddalena rifiuta con garbo le reiterate avance. Entrano Enrico e Carlo, che non perde occasione per sottolineare con sarcasmo il parlare forbito e vecchia maniera di Don Sabino, che punzecchia Carlo chiamandolo ingegnere pur sapendo bene che non lo è. Dopo la partenza di Don Sabino, Carlo, in presenza di Maddalena, demolisce il lavoro fatto da Enrico che ritiene dispendioso perché più indicato a costruzioni vecchia maniera con l’uso dei mattoni e non del molto più economico cemento: tanto ad abbellire il manufatto ci penseranno gli stucchi e le cornici pagate a parte e a caro prezzo. Il pessimo gusto del geometra e la sua filosofia da sfruttatore indispettiscono maggiormente Maddalena, che non sa darsi pace dell’arrendevolezza del figlio, il quale giustifica sempre i comportamenti di Carlo. Intanto, Maddalena riceve Tonio (Pinuccio Tanzi), il colono del podere di famiglia, che le comunica la pessima annata e, quindi, i cattivi raccolti e le modeste entrate. E aggiunge che il vicino, Don Gesualdo, ha chiesto i fiori del loro orto per abbellire l’azienda e la casa in occasione delle nozze della figlia Serafina, cara amica di Rosalia. Maddalena  ed Enrico vengono così a sapere che lo sposo è Carlo. Maddalena non vorrebbe concedere neanche un fiore ma Enrico  dà il permesso a Tonio di dare tutti i fiori che vogliono. Purché se ne vada. Rimasti soli, Maddalena guarda il figlio, che, sconvolto abbandona la scena. Entra il maestro Pirronti (Francesco Marinelli) che chiede di Rosalia: vorrebbe che questa  tornasse a scuola per completare il saggio di fine anno vista l’incapacità della maestra titolare di condurre in porto lo spettacolo. Rosalia rifiuta risentita perché non le è stata assegnata una classe come meriterebbe. Alla fine cede, commossa dall’accorata insistenza di Teresina (Rosanna Ingravallo) e Ninetta (Nina Saba), due alunne che le sono molto care.

Atton II° – Enrico entra in scena e comunica alla madre di aver ricevuto una raccomandata anonima con un assegno di 10.000 lire per proseguire gli studi. Enrico vorrebbe sapere chi è il donatore per poterle restituire; Maddalena si oppone e passano in rassegna la lista dei probabili donatori. Giunto al nome di Carlo, Maddalena lo esclude a priori visto che si sposa e mette su casa a Roma, quindi non crede di volere a portata di mano l’ex-fidanzato della giovane moglie! I due ricordano le sofferenze di Enrico quando la giovane lo piantò appena seppe che non poteva continuare gli studi da ingegnere. Entra Don Sabino che convince Enrico ad una battuta di caccia nella sua azienda. Ciò avvalora il sospetto che il donatore anonimo sia lui. Don Sabino, rimasto solo con Maddalena, mostra l’omaggio di ben nove beccacce e riformula la richiesta di unire le due inevitabili solitudini  er quando Enrico andrà a studiare a Roma e Rosalia andrà in sposa a qualche bravo giovane. Entrano Lucrezia, che non la smette di decantare la bellezza della recita e il bel lavoro fatto da Rosalia, questa con le due bimbe protagoniste della buona riuscita dello spettacolo e il maestro Pirronti. Rimasti soli Rosalia e Pirronti discutono di come apportare alcune modifiche allo spettacolo prima della replica. Il maestro approfitta del momento di confidenza per dichiarare a Rosalia la sua stima e il suo amore; ma questa con grande turbamento dichiara di non poter accettare malgrado la grande stima che ha per lui.

Atto III° - Entra Don Sabino trafelato e ansioso di raccontare a Maddalena dell’impresa del  figlio che gli ha salvato la vita liberandolo dall’aggressione di un lupo durante la battuta di caccia alla volpe a notte inoltrata. Dal dialogo fra i due Maddalena deduce che il benefattore è Don Sabino e si fa promettere da questi che Enrico mai lo saprà. Ritorna Enrico che saluta Don Sabino che va via con la promessa di un’altra battuta di caccia. Rimasti soli, Maddalena chiede al figlio se ha notato il turbamento di Rosalia dopo l’incontro con Pironti, che non si era intrattenuto come aveva promesso.
Entrambi convengono che è un affare di cuore e concordano sulle buone qualità del maestro Pirronti e la ritrosia di Rosalia. Enrico promette di parlarne con la sorella. Rimasto solo, Enrico riceve la visita di Carlo che gli parla dei suoi programmi futuri e dell’idea di trasferirsi a Roma subito dopo il matrimonio per essere vicino ai centri del potere e a chi decide i finanziamenti per le grandi opere. Lui, Enrico, sarà il suo proconsole a Dentecane e continuerà a collaborare grazie alla sua presenza a Roma come studente. Enrico, abbindolato dalle chiacchiere di Carlo ha la felice idea di accennare al caso Rosalia ed intercede per convincere questa ad accettare la dichiarazione d’amore di Pirronti. Carlo cerca di sottrarsi all’incarico ma l’arrivo di Rosalia e il subitaneo allontanamento di Enrico lo lasciano solo con lei, che certamente non lo stima. Il confronto si fa subito aspro perché emerge un episodio di tanto tempo fa quando Carlo approfittò della sua innocenza abbandonandola subito dopo. Mentre implora il silenzio di Rosalia per il sopraggiungere di Enrico, Carlo imbarazzatissimo avanza l’uscita. Enrico, che, dall’ultima parte della conversazione, ha capito il motivo del turbamento della sorella, cerca di fermarlo chiedendogli come pensa di riparare. Carlo lo strattona e fugge. Enrico d’istinto prende il fucile, apre la finestra e spara. Rosalia cerca di fermarlo ma cade affranta. Enrico posa il fucile e aiuta la sorella a rialzarsi. Entra Don Sabino, pallido e sconvolto, che annuncia l’assassinio di Carlo aggiungendo che una guardia ha impedito la rimozione del cadavere che qualcuno voleva portare in casa Zuccari. Don Sabino guarda prima Rosalia e poi Enrico e capisce; prega Enrico di scappare subito in campagna da lui. Rosalia implora il fratello di salvarsi. Enrico, invece, decide di restare affinché tutti sappiano che è stato lui ad uccidere Carlo.
All’epoca della rappresentazione, oltre al gradimento dei soliti assidui frequentatori del nostro Teatro Van Westerhout - dove furono rappresentate tutte le commedie di Piero Delfino Pesce, sotto la direzione di suo figlio Lucio - ci furono le critiche dei giovani attori delle altre compagnie teatrali di Mola (una di teatro sperimentale e d’impegno sociale e l’altra di attori pseudo-professionisti), che trovarono le commedie di maniera e in un italiano tipico del periodo in cui vennero scritte. Ovviamente, gli attori della Filodrammatica si guardarono bene dal modificare il linguaggio volendo rappresentare le opere nella loro originalità. Se critica poteva esserci, certamente doveva essere rivolta verso la capacità di giovani attori dilettanti di rappresentare degnamente un aspetto dell’impegno intellettuale del Grande Molese nel momento in cui si celebrava il Primo Centenario della sua Nascita.
Purtroppo, non sono state rappresentate altre opere teatrali di Piero Delfino Pesce pur essendo le restanti nove degne di considerazione. Personalmente ho programmato di rileggerle e sintetizzarle per i lettori di Città nostra, anche se penso che potrebbero essere materia di  una interessantissima ricerca e/o tesi di laurea di qualche volenteroso studente, molese o non.

 * Vitangelo Magnifico, La piccola vita,  in “Città nostra”, a. XIV,  n. 142, maggio 2015.

 La fidanzata, La moglie, I figli*

di Vitangelo Magnifico

Piero Delfino Pesce (1874-1939) scrisse tredici opere per il teatro (vedi riquadro), di queste, quattro sono state ricordate su questa rivista in occasione della ricorrenza del 140° anno dalla nascita dell’Autore e in ricordo delle loro rappresentazioni, avvenute tutte al Teatro Comunale “N. Van Westerhout” in occasione delle celebrazioni del Primo Centenario della Nascita, ad opera della Compagnia Filodrammatica Molese diretta dal figlio, Lucio Delfino Pesce (Città nostra, nn. 132, 134 e 137, 2014; n. 142, 2015).
Con questo articolo inizia una sintesi delle restanti opere proponendole in ordine cronologico e partendo con le prime tre, che possono essere definite “giovanili” essendo state scritte, o completate, quando l’Autore aveva 23 e 24 anni, quindi quando era ancora studente e/o giovane laureato (si laureò nel 1896) in giurisprudenza presso l’Università di Napoli dove ebbe come Maestro Giovanni Bovio (1837-1903), il grande filosofo e politico repubblicano di Trani.
La molese Teresa Lopez nella sua tesi di laurea “Critica e scrittura teatrale nell’opera di Piero Delfino Pesce” (Università degli Studi di Bari, Anno Accademico 1996-1997; Relatore, Prof.ssa Grazia Distaso; pagg. 114), scrive: “Le commedie di Piero Delfino Pesce testimoniano la funzione che il teatro svolge in un centro di Provincia, come luogo non solo d’incontro, di divertimento, ma anche come rappresentazione dei problemi familiari, dei drammi, delle ipocrisie, dei tradimenti vigenti all’epoca, e nel privato e nel pubblico”. Aggiunge: “ Per trama e per personaggi, le opere risultano molto semplici; tuttavia esse ci permettono di sottolineare il passaggio dal teatro romantico a quello verista, con qualche riflesso anche nel teatro psicologico, che tuttavia non influenza molto l’Autore. Non dimentichiamo che il teatro italiano del Secondo Ottocento cerca di superare le formule ormai stantie di un romanticismo languido e stanco e si sforza di attingere alla sorgente del vero e del reale. Giuseppe Giacosa, esponente significativo di questo periodo, è l’esempio di tale momento di transizione”.
Lo scrivente, avendo riletto a distanza di anni tutte le commedie di Piero Delfino Pesce e partecipato all’allestimento e rappresentazione con la Compagnia Filodrammatica Molese di ben quattro opere sotto la direzione di Lucio, figlio dell’Autore, non condivide totalmente il giudizio della Lopez quando scrive: “Tuttavia manca nelle commedie di Delfino Pesce l’impianto narrativo degli autori ricordati. Le commedie sono appena abbozzate in quanto su un canovaccio di base agiscono dei personaggi non ben delineati dal punto di vista psicologico,il cui dialogo, spesso, è molto scarno, ridotto all’essenziale, di qui risulta evidente che Piero Delfino Pesce dà più importanza al tema, lasciando agli attori la capacità di interpretare Le sue commedie dunque risultano valide dal punto di vista tematico, della “fabula”, meno puntuali nell’impianto narrativo, che forse sperava di migliorare con ulteriori revisioni o piuttosto al momento della rappresentazione”.
Personalmente, da lettore ho sempre percepito la scorrevolezza dell’azione scenica e la compiutezza del discorso mentre da attore dilettante, con la rilettura e la guida di Lucio, ho percepito la crescita dei personaggi con le loro personalità e funzionalità teatrali. Cosa che, peraltro, succede anche leggendo e rileggendo le opere di altri più importanti Autori. Un aspetto che invece colpisce il lettore contemporaneo è l’italiano che adopera Piero Delfino Pesce, nel quale, anche se grammaticalmente perfetto, compaiono termini e coniugazioni verbali ormai obsoleti ma che erano di uso comune nel linguaggio dell’epoca. D’altronde, basta leggere un qualsiasi libretto d’opera di quell’epoca (tutto Verdi, per esempio) per rendersene conto! In ogni caso, l’adeguamento dei testi all’italiano corrente non toglierebbe nulla all’impianto e al significato delle opere.
Nonostante i pochi lavori analizzati, Teresa Lopez ben caratterizza e raggruppa le commedie di Piero Delfino Pesce. Nella sua bella tesi la Lopez, infatti, scrive: “.si potrebbero raggruppare tutte le commedie di Piero Delfino Pesce in due sezioni: una di stampo realistico popolare, l’altra di carattere romantico passionale. Tuttavia questa separazione non è mai netta, perché l’Autore tende a rappresentare in ogni commedia la realtà nei suoi molteplici aspetti, al fine di attrarre il pubblico, al quale egli sicuramente vuole dare un insegnamento, come afferma in Riflessi (Ed. Laterza e Figli, 1904): l’arte idealizza ed eterna il bello ed il brutto, il bene ed il male, e completa la vita nostra con la fonte inesauribile di civili insegnamenti”.
E sulla capacità didattica delle opere di Piero Delfino Pesce non si hanno dubbi. Tra i vari temi trattati nelle commedie da Piero Delfino Pesce, come in gran parte del teatro dell’Ottocento, il più importante è certamente quello della famiglia italiana, che nel periodo di riferimento era in piena trasformazione considerate anche le vicende storiche e politiche connesse al Risorgimento e conseguenti l’Unità d’Italia. Non a caso le prime tre opere hanno come titoli: La fidanzata, La moglie e I figli. Delle tre, solo La moglie andò in scena il 9 gennaio del 1897 a Napoli presso il Teatro Nuovo. Fu accolta dall’entusiasmo dei molesi presenti e dai fischi dei napoletani oltre che da recensioni oltremodo critiche. Non sappiamo se questo insuccesso fu la causa dell’abbandono dell’impegno teatrale di Piero Delfino Pesce, che lasciò incompiute altre due opere coeve (Gilda, 1897; e L’ideale, 1898). Certamente all’epoca era fortemente attratto dall’attività di giornalista, ed in seguito anche di editore, che continuerà fino a quando il Fascismo glielo impedirà. Allora riprenderà a dipingere e a scrivere per il teatro e a guidare i giovani molesi con la sua Filodrammatica (Città nostra, n. 141, 2015).
Nonostante la giovane età, Piero Delfino Pesce già in queste tre opere dimostra sia una grande curiosità verso temi delicati come i comportamenti che intercorrono fra i componenti delle famiglie che per l’abilità con la quale li trasferisce in una composizione teatrale. E’ il segno di quel grande impegno sociale, politico e intellettuale che coerentemente lo caratterizzerà per tutta la durata della sua esistenza. Personalmente ritengo che sono le opere teatrali il mezzo migliore per poter apprezzare appieno la personalità e l’ingegno del Nostro grande concittadino. Purtroppo, ad eccezione de La moglie che pubblicò con la Casa Editrice Humanitas (1912), le opere teatrali di Piero Delfino Pesce sono inedite e, quindi, accessibili a pochissimi. La nostra comunità dovrebbe fare uno sforzo per raccoglierle, tramandarle e metterle a disposizione di chi potrebbe valorizzarle in un modo migliore di come è stato fatto finora. La tesi di laurea di Teresa Lopez è
un valido esempio.

Sintesi delle tre opere giovanili.

La fidanzata (1896). Commedia in tre atti. Classica espressione del teatro borghese, come gran parte delle opere di Piero Delfino Pesce, questa commedia affronta i temi dell’amore fra due giovani cugini e la preoccupazione di un genitore di non disperdere il patrimonio dell’antica famiglia con il matrimonio del rampollo con un’estranea. Quest’ultimo è un tema che desta curiosità considerando l’estrazione alto borghese dell’Autore e la grande apertura intellettuale e morale della Famiglia Delfino Pesce. Non è da escludere la volontà del giovanissimo Autore di deridere un comportamento antico ancora in voga alla sua epoca (seconda metà dell’Ottocento). Entrambi i temi sono trattati con leggerezza, senza eccessiva drammaticità anzi con ironia e divertimento. La fidanzata con Non è pregiudizio (1936) è la commedia più divertente di Piero Delfino Pesce.
In sintesi: Gilda ama suo cugino Carlo, studente a Napoli; su insistenza dei genitori si è promessa a Vergili, Commissario Prefettizio nel Comune in cui la famiglia risiede e nipote di un influente Senatore del Regno. Ciò, oltre a garantire alla giovane un marito dalla sicura e prestigiosa carriera, permetterebbe la valorizzazione politica del padre di lei, Ludovico, ricco ma inconcludente. La giovane ha qualche riserva circa il fidanzamento ufficiale che sarà stipulato per il giorno di Pasqua e la trasmette alle due sorelle più giovani. I genitori fanno finta di non capire anche perché considerano quella per il cugino una passeggera infatuazione fra ragazzini cresciuti insieme nello stesso palazzo nobiliare. Carlo, che è figlio unico – ed è considerato bello, bravo ed intelligente dalla madre ma inaffidabile e scapestrato dagli zii- ritorna per le vacanze pasquali e scopre dell’imminente fidanzamento di Gilda. Ne fa una malattia con febbre e depressione che scatenano la reazione della madre, Maddalena, sorella di Ludovico, che è molto preoccupata per le conseguenze del matrimonio di Gilda con Vergili perché vedrebbe andare ad una estranea i gioielli di famiglia che lei conserva per la futura moglie del figlio. In più, con il matrimonio di Carlo con Gilda, Maddalena vedrebbe realizzato il suo desiderio di riunire le due parti sia dell’antico palazzo che dell’azienda agricola della Famiglia Baselli ora divise fra lei e Ludovico. Quindi, Maddalena s’ingegna per trovare una soluzione che permetta di realizzare sia il sogno d’amore dei due giovani che i suoi desideri. All’inizio del cerimoniale del fidanzamento, al quale manca artatamente solo Carlo, si sente un colpo di fucile provenire dall’appartamento di Maddalena. Tutti i familiari della fidanzata pensano al suicidio di Carlo. Gilda affranta dal dolore si dichiara responsabile del folle gesto provocato dal suo rifiuto. Alla comparsa di Carlo, sano e salvo, Gilda gli si butta al collo e lo copre di baci dichiarandogli tutto il suo amore. Allora Maddalena svela che la cameriera, come convenuto, nel fingere di cercare un oggetto avrebbe fatto esplodere un colpo di fucile; l’assenza di Carlo al fidanzamento avrebbe fatto credere all’irreparabile e avrebbe scatenato la reazione di Gilda. Dopo l’iniziale smarrimento, Vergili riconosce che il trucco escogitato da Maddalena aveva salvato tutti da un gravissimo errore.

La moglie (1896). Questa commedia in tre atti ha come tema dominante il tradimento che irrompe con violenza in un’apparentemente tranquilla famiglia agiata di un prestigioso docente universitario, Paolo De Andis, astronomo di fama, nella sera in cui si verificherà un raro fenomeno astronomico, alla cui osservazione nel cielo di Milano parteciperà un astronomo svedese. Paolo ha sposato Amalia, una giovane e modesta collaboratrice conosciuta all’università. Hanno una bimba, Margherita. Con loro vivono la madre, Elvira, e il fratello, Luciano, di Paolo. La sera dell’evento astronomico, prima che Paolo si rechi all’osservatorio, viene avvistato un estraneo, probabilmente un ladro, che si aggira nel giardino. Luciano chiude il cancello per trarlo in trappola. I domestici però sanno chi è; e quando Luciano sta per catturarlo glielo impediscono e lo lasciano fuggire, perché non è un ladro ma l’amante di Amalia. Quando Luciano viene a conoscenza del motivo della visita del falso ladro, implora il fratello di intervenire ricordando che il nonno e il padre avrebbero ucciso per vendicare tale offesa. Ma Paolo, che aveva sospetti sul comportamento della moglie, controbatte con calma e rassegnazione anche per evitare che la madre venga turbata dalla notizia. A questo punto compare il primo, anche se breve, monologo scritto dall’Autore con il quale Paolo esprime tutto il suo dolore per il tradimento della moglie e dal quale emergono considerazioni giuridiche e morali dell’Autore. Durante la vivace discussione fra i due fratelli, Amalia, che ha capito di essere stata scoperta li affronta con spavalderia ammettendo di avere un amante e si rifiuta di farne il nome malgrado l’insistenza di Luciano, che la copre di ingiurie mentre Paolo lo invita a moderare i termini perché sta offendendo “sua moglie”. All’Università, intanto, il fenomeno astronomico è stato osservato in assenza del Direttore; i tecnici stanno sviluppando i negativi delle foto chesono ben riuscite. Commentano l’evento e i risultati dell’osservazione l’assistente Franco Ruggieri e Ines, la segretaria del Direttore, con l’ospite straniero che decide di andare a visitare il Duomo di notte prima della partenza dall’Italia. Ines introduce Amalia da Franco, che rimasti soli si raccontano le vicende della notte. Amalia assicura Franco che non è stato riconosciuto da Luciano e che i domestici lo hanno lasciato andare certamente per la tranquillità del loro padrone. Però lei ha dichiarato il suo tradimento ed ha deciso di abbandonare il marito e di andare a vivere con lui e mettere fine all’ipocrisia delle convenzioni familiari. A questo punto Franco tergiversa chiedendo di non mutare la situazione dal momento che non è stato riconosciuto. Ciò irrita Amalia che, dopo una violenta lite, si rende conto di essere stata raggirata dal suo amante e lo abbandona furiosa chiedendogli di dimenticarla per sempre. Mentre Franco avvilito scivola a sedere, entra Ines, che gli chiede cosa volesse la moglie del direttore. Alla risposta evasiva di Franco, Ines dichiara di conoscere la loro relazione per aver pedinato la donna quando si recava a casa dell’amante velata per non farsi riconoscere. E cita l’indirizzo preciso che corrisponde a quello della casa del suo fidanzato, il medesimo Franco. Nonostante il tradimento con quella donna, Ines ammette di amarlo ancora e dichiara che gli è stato sempre fedele e gli sarà sempre devota. I due si riappacificano e si dividono con un bacio. Arriva il Direttore. Alla precisa domanda, Ines racconta il via vai delle diverse persone ad iniziare dei tecnici che hanno sviluppato i negativi che consegna, seguiti dalla visita a Franco di sua moglie. Intanto, mentre ascolta la sua segretaria, Paolo, con nervosismo stropiccia i negativi, rovinandoli. Fa chiamare Franco e lo accusa di aver rovinato i negativi per danneggiarlo nella comunità scientifica nonostante tutto ciò che ha fatto per lui. Davanti al personale che il Direttore ha chiamato a testimoniare, Franco nega e cerca di farlo ragionare; ma davanti all’insistenza di Paolo, Franco lo offende; Paolo reagisce con uno schiaffo. Il personale li divide e spinge Franco fuori dalla stanza del Direttore. Paolo e Franco si sono sfidati a duello. Paolo ha fatto testamento qualora il duello risultasse fatale per lui nonostante la sua elevata pratica con le armi contro l’inesperienza di Franco. Le disposizioni sono tali da non far sospettare nessuno del tradimento. Intanto, in casa del Direttore arriva Ines e lo supplica di risparmiare Franco, che è tutto per lei. Amalia, in un lungo dialogo finale, chiede scusa a Paolo per il dolore procuratogli e, seriamente pentita, fa ricadere la colpa su Franco che l’ha saputa così abilmente circuire proprio facendo leva sulle qualità morali e scientifiche del suo amico Direttore. Dopo il lungo e disperato abbraccio e l’implorazione di non andare al duello, Amalia, a Paolo che si allontana deciso, grida: “E uccidilo!”.

I figli (1897). Tema dominante di questa commedia in tre atti sono i rapporti tra i genitori e i figli, determinati non solo dal cambio generazionale ma anche dalle conseguenze delle affievolite spinte sociali ed ideologiche che la borghesia italiana subisce dopo l’Unità d’Italia, che, tra l’altro, sfociarono in un generalizzato malaffare politico. Teresa Lopez ha scritto: “I temi dominanti del denaro, della corruzione, dell’ipocrisia, tutti concatenati con quello centrale della famiglia, ritornano ne I figli. Infatti, la vicenda si svolge a Napoli nella casa della famiglia Fascelli, composta da Vincenzo, da sua moglie Elena e dai figli Italo e Niny, che conduce un tenore di vita superiore a quello che le finanze potevano permettere”.
Il padre, infatti, pur sembrando una persona rispettabilissima, ha accumulato debiti, ha sottratto fondi in banca e ha le mani in affari non sempre puliti in complicità con i politici al potere. La madre, silenziosa e dolce, ha un rapporto con il migliore amico del marito, il ricco avvocato Riccardo De Rosa, che sovvenziona la famiglia Fascelli. I figli, ed in particolare Italo, pur non conoscendo appieno le beghe e le corruttele familiari, non sopportano l’ipocrisia dei genitori che pretendono per i figli un futuro che contribuisca a risolvere i problemi di famiglia e a permettere lo stile di vita al quale non riescono a rinunciare. La commedia si conclude con il tentativo di Italo di coinvolgere la sorella nella fuga da casa e dal nucleo familiare per sottrarla al matrimonio con l’uomo ricco che i genitori hanno scelto per lei. Quando giungono alla fine dei preparativi per la fuga, arrivano i genitori che provocano la violenta dichiarazione del giovane che non si riconosce figlio di Vincenzo.

* Vitangelo Magnifico, La fidanzata, La Moglie, I figli, in “Città nostra”, a. XIV, . n. 144,  luglio/ agosto 2015.

Ricordo di Napoli e La partita a scopa*

di Vitangelo Magnifico

Nel precedente numero di Città nostra (n. 144, Luglio Agosto 2015) sono state ricordate le prime tre opere teatrali di Piero Delfino Pesce (1874- 1939), La fidanzata, La moglie e I figli, scritte fra il 1896 e 1897 quando era poco più che ventenne. Riprenderà a scrivere per il teatro (e a dipingere) per riempire il tempo lasciatogli libero dalla forzata inazione alla quale lo aveva condannato il fascismo (Città nostra, n. 141, 2015). Nel giro di un quinquennio scriverà le restanti dieci commedie delle tredici giunteci complete. Di queste, Le due Rose (1933), La piccola vita (1933- 34), La novella del Natale (1934) e Un episodio (1934) furono rappresentate dalla Compagnia Filodrammatica Molese in occasione del Primo Centenario della sua nascita come già riportato su Città nostra, nn. 132, 134 e 137, 2014; n. 142, 2015. Qui vogliamo ricordare le due successive, Ricordo di Napoli (1934) e La partita a scopa (1935-37). Delle due la prima restò inedita mentre la seconda, con il titolo La partita a carte imposto dalla censura, fu rappresentata a Roma al Teatro delle Arti, il 14 gennaio del 1938, sotto la regia del grande regista Anton Giulio Bragaglia, che fu estimatore di Piero Delfino Pesce e collaboratore di Humanitas.

Ricordo di Napoli (1934) – Commedia in tre atti nella quale l’amore giovanile e la dignità degli umili in contrasto all’arrivismo e all’arroganza dei potenti sono i temi dominanti. Anche il tema della famiglia, tanto caro a Piero Delfino Pesce così come a gran parte degli Autori dell’Ottocento, si materializza in quest’opera attraverso una ricongiunzione dopo tanti anni. L’aver trascorso a Napoli gli anni dell’Università permette all’Autore di ben tratteggiare i comportamenti dei personaggi e gli ambienti dell’epoca. Atto primo – La scena rappresenta un piccolo caffè della vecchia Napoli nei pressi di Toledo, dove Gustavo Cecca, di prima mattina, attende i suoi vecchi amici dell’Università, Michelino Zufoli, medico, e Ciccio Marcone, notaio, prima di ripartire per l’Africa dove svolge l’incarico di Giudice in Cirenaica. Prima di loro si presenta la Baronessa Adele Quintamaglia, amante del Senatore Paolino Mastrocappa, ed interessata a Gustavo, conosciuto durante una vacanza a Giulianova e del quale si aspettava una visita la sera precedente. Con abilità da cortigiana, la Baronessa fa intendere a Gustavo che lei può intercedere per una sua rapida carriera in Patria e lontano dalla selvaggia Africa. Gustavo non mostra molto entusiasmo, ma accetta l’invito a pranzo a casa della Baronessa prima di trascorrere l’ultima sera a Napoli, luogo di partenza del piroscafo che lo riporterà in Africa. Arrivano, nell’ordine, Michelino, mentre la Baronessa va via, e Ciccio ai quali Gustavo confidala grande nostalgia di Napoli dove non pensava di ritornare mai più; ma dopo una monotona e noiosa vacanza di due mesi a Giulianova con i pochi membri residui della sua famiglia originaria il ricordo dei tempi dell’università si era fatto pressante. Mentre i tre amici discutono di come trascorrere l’ultima sera prima della partenza e ricordano i tempi andati -intervallati dai commenti, spesso ironici ed invadenti dei camerieri napoletani- nel caffè entra Annina che ordina un cappuccino sedendosi ad un tavolo dove viene raggiunto dal figlio, Raffaele, per salutarla prima di prendere il mezzo che lo porterà in fabbrica. Mentre Gustavo consulta con gli amici una guida di Napoli, i suoi occhi incrociano il volto di Annina. Le si avvicina e la chiama; lei non appare sorpresa e, sorridendo, confessa che lo ha subito riconosciuto appena entrata nel bar. Il sorriso di Annina è lo stesso che aveva stregato Gustavo da giovane. Lei era stata gravemente ammalata e Gustavo le era stato vicina. Lei aveva sempre rifiutato aiuti economici offerti dal Signorino, come continua a chiamarlo divertita. Si scambiano informazioni sulla vita. Entrambi non sono sposati. Annina, che all’epoca faceva la ragazza di una sarta, ora è sarta di moda e possiede un atelier con sette dipendenti. Lui, invece, dopo gli studi di giurisprudenza ha fatto la Campagna d’Africa e la Grande Guerra. Intanto gli amici pressano per andar via, ma Gustavo sembra ammaliato da Annina, che lui continua a chiamare Nannina. Annina gli augura buon viaggio e va via. Gustavo, resta per un attimo attonito. Subito dopo afferra il cappello e corre per strada per raggiungerla. Ma non la trova. Chiede informazioni su di lei ai camerieri che sembrano di non sapere altro se non che frequenta il bar per il cappuccino quotidiano. In realtà la vogliono proteggere da un estraneo che a loro appare strano. Atto secondo – Nell’anticamera dell’appartamento della Baronessa, il Senatore appare alquanto infastidito dal fatto che la padrona di casa, sua amante e mantenuta, si trattenga in lieta conversazione con Gustavo in una stanza attigua. Chiede informazioni alla cameriera Carolina, pagata dal medesimo anche per spiare la Baronessa, sulla visita dell’ospite della quale lui non è stato messo a conoscenza. Il Senatore, roso dalla gelosia, fa chiamare la Baronessa, che lui chiama Adelina, per rimproverarla del suo comportamento avendo ben capito delle intenzioni della sua mantenuta di accalappiare Gustavo. Ma questi non cade nella trappola malgrado l’adulazione e la sfacciata insistenza della Baronessa. La cameriera annuncia l’arrivo della sarta per le prove dei nuovi vestiti. Alla fine delle prove, la sarta, Annina, incontra Gustavo, che non perde tempo per chiederle l’indirizzo di casa perché vuol restare solo con lei la notte prima della partenza. Dopo una pallida resistenza, Annina glielo dice. Dal dialogo si capisce che i due, da giovani,erano stati amanti e che nessuno dei due ha dimenticato l’altro. Gustavo apprende che Annina ha un figlio, Raffaele, di diciassette anni avuto da un fidanzato che si era dileguato e che è vedova di un marito che la sposò in punto di morte e che aveva riconosciuto Raffaele come figlio suo. Annina va via e arrivano i due amici di Gustavo, che programmano una serata da trascorrere al Teatro San Carlo. Gustavo trova la scusa dei timbri necessari all’espatrio per lasciare la casa della Baronessa. Atto terzo- La scena rappresenta la stanza centrale del piccolo appartamento occupato da Annina che è pronta per andare al lavoro. Entra Gustavo, in perfetto assetto da viaggiatore, dalla porta d’ingresso lasciata aperta da Giuseppe, il facchino che aiuta Annina nel disbrigo di alcune faccende. Gustavo bonariamente rimprovera Annina per aver sprecato l’occasione di trascorrere una notte insieme e le confida di aver lasciato con i bagagli l’albergo ma giunto lì non l’aveva trovata a casa e aveva girovagato a lungo in carrozza per Napoli per trovare una camera in una pensione, dopo che il portinaio aveva chiuso il portone.  Annina è alquanto divertita dalla disavventura di Gustavo e dal comportamento del portinaio che lo aveva lasciato fuori al freddo.
Gustavo chiede ad Annina di andare con lui in Africa unitamente a Raffaele. Ma Annina non cede; vuol restare a Napoli con suo figlio. Approfittando dell’allontanamento di Annina chiamata dalle sue ragazze preoccupate del suo insolito ritardo, Gustavo prende il ritratto di Raffaele e confronta i tratti del volto del ragazzo con il suo aiutandosi con lo specchio del canterano. Suonano alla porta con insistenza: è la Baronessa, che aveva capito che fra Gustavo e Annina c’era stato qualcosa in passato e ora vuol sapere se hanno passato la notte insieme. Gustavo cerca di calmare la Baronessa alquanto agitata mentre Annina le rimprovera il fatto che nessuna cliente si era permesso di raggiungerla in casa sua: una casa onorata e di gente seria, non come lei che si spaccia per Baronessa approfittando che suo marito, Bartolomeo, cuoco del duca di Capodichino, si firmava Bar. con la erre appuntata. Così come era noto che il cuoco era stato obbligato a sposarla perché lei era l’amante del marchesino di Soccavo dopo essere stata la guardarobiera del papà marchese. In risposta alla violenta reazione della Baronessa, Annina aggiunge che il Senatore ha saldato tutti i suoi conti, perciò non si vedranno mai più. Con un gesto di disprezzo verso Gustavo ed Annina, la Baronessa va via. Annina affranta si siede e si rammarica per aver trattato così male quella donna. Gustavo la incoraggia e le promette che chiederà il trasferimento a Napoli e ritornerà per sposarla. Come pegno le lascia l’anello che porta al dito mignolo e che fu di sua madre. Si lasciano con un bacio. Entra Raffaele che ha lasciato il lavoro in anticipo non potendo svolgere le sue mansioni per un guasto agli impianti. Annina porge a Raffaele l’anello dicendogli di averlo trovato dopo anni di ricerche. È l’anello che suo padre ricevette dalla madre quando prese la licenza liceale. Lui lo portava sempre al dito piccolo in ricordo di sua madre, così come lui, Raffaele, deve portarlo in ricordo anche della nonna, una donna tanto buona che lui non ha avuto la fortuna di conoscere.

La partita a scopa (1935-1937) – Commedia in tre atti che, come già scritto, fu rintitolata La partita a carte per volere della censura in occasione della sua messa in scena nel 1938 con la regia di Anton Giulio Bragaglia. Per l’occasione l’Autore rivide alcune parti; da qui la doppia data di composizione. Scrive Teresa Lopez nella sua tesi di laurea dedicata al teatro di P. D. Pesce: La magggior parte della produzione teatrale di Piero Delfino Pesce si concentra nell’ultimo decennio della sua vita. Spiccano per struttura, personaggi e contenuti Le due Rose del 1932, la Novella del Natale del 1934 e La partita a carte del 1936, che furono realizzate in tempi diversi, come si nota dalle date. Le tre commedie, a mio parere, denotano una maturazione sia nei temi, sia nell’intreccio, sia nei personaggi, ed evidenziano come il Nostro si sia dedicato con amore e partecipazione a quest’attività. In tutte e tre le commedie predomina l’amore, visto però in maniera diversa: nella prima vi è l’amore tradito, nella seconda vi è l’amore ostacolato, nella terza vi è l’amore conquistato in una partita a carte, ma che è oggetto di grande delusione. Ed ancora: Dall’analisi delle tre commedie è già visibile come dalla semplicità di Le due Rose si passa all’intreccio più accurato, più complesso di La novella del Natale dove si parla di tre amori…..L’intreccio diventa ancora più articolato e si colora di giallo in La Partita a carte.(T. Lopez: Critica e scrittura teatrale nell’opera di Piero Delfino Pesce. Università degli Studi di Bari, Anno Accademico 1996- 1997; Relatore, Prof.ssa Grazia Distaso; Pagg. 114).
Atto Primo - Nell’Osteria della Luna di un villaggio spagnolo, Francisco, Inigo, Don Ramon e Alonzo finiscono una partita a scopone sotto lo sguardo di Don Diego. La coppia Don Ramon e Alonzo hanno perso la partita per colpa del secondo a sentire il primo alquanto adirato. I due si rinfacciano le colpe della perdita mentre Don Diego cerca di calmare gli animi e Inigo cerca di evidenziare l’abilità di giocatori sua e del compagno di coppia Francisco. Chi sia più bravo fra i due perdenti lo deciderà una partita a scopa con una posta seria come pretende Don Ramon, che mette una posta di diecimila pesetas alla quale Alonzo risponde con una vigna che ne vale almeno il doppio. Don Diego, che ha cercato invano di chiamare alla ragione i due giocatori, e Inigo saranno testimoni. Il padrone della locanda, Giacomo e sua moglie Manuela servono le bevande ai quattro. Entrano nella locanda due avventori mai visti prima: uno elegante, Pedro, l’altro trasandato e dall’aria balorda, Valerio, che si guardano intorno e si accomodano ad un tavolo. La coppia dalle prime battute sottovoce e dal comportamento verso i presenti dimostra le reali intenzioni: sono due ladri imbroglioni che, conmezze parole, fanno credere di essere stati mandati dall’amministrazione centrale per alcuni controlli sui possidenti del paese; in realtà per capire quali case svaligiare. La partita a scopa procede in equilibrio ma a vincerla è Don Ramon. Alonzo propone una rivincita subito mettendo in gioco la sua casa. Dopo i richiami dei presenti e l’insistenza di Alonzo, Don Ramon accetta la rivincita rinunciando alla vigna in caso di perdita. Intanto Pedro e Valerio continuano la manfrina e chiedono informazioni su un albergo dove dormire. Giacomo offre una stanza della locanda non essendoci nei paraggi alberghi degni di tali signori. La partita volge al meglio per Alonzo per otto a tre quando entra nella locanda sua moglie Isabella, informata da Inigo mandato da Don Pedro, accompagnata dalla piccola Carmencita. Isabella cerca in tutti i modi di portare a casa suo marito Alonzo per evitare una eventuale rovina della famiglia. Alonzo in malo modo la scaccia. Anche la rivincita finisce con la sconfitta di Alonzo, che perde così anche la casa. Don Ramon cerca di restare solo con Alonzo, che furioso ha scacciato Francisco che voleva portarlo a casa, manifestando il suo disagio per aver vinto beni così importanti solo giocando due fortunate partite a carte e propone ad Alonzo una terza partita nella quale si giocherebbe in blocco casa e vigna contro qualsiasi offerta in moneta o in oggetti; non ha niente da perdere essendo scapolo e senza figli mentre Alonzo ha moglie e figlia da mantenere. E poi come la prenderebbe Isabella nel sapere che hanno perduto i più importanti immobili di famiglia. Alonzo, però, non ha più nulla da mettere sul piatto neanche i gioielli della dote di Isabella perduti con un cattivo investimento. A questo punto Don Ramon alza la posta e fa la “proposta indecente”: mettere in gioco la casa e la vigna contro una notte con Isabella! Anzi, qualunque sarà l’esito della partita, Alonzo riavrà vigna e casa; l’esito dirà se Don Ramon ha meritato o non il “piccolo premio” chiesto all’amico! Nel lungo dialogo fra i due l’Autore sviluppa le ragioni dei due giocatori e il motivo che porta Alonzo ad accettare. Don Ramon fa credere ai presenti che la posta è il suo ingresso in un vantaggioso affare commerciale di Alonzo contro la vigna e la casa. Intanto continuano le moine dei due ladri che hanno capito quale casa visitare di notte. Alonzo perde anche questa partita. Deve far finta di allontanarsi dal paese per lasciare campo libero di notte a Don Ramon, al quale consegna le chiavi di casa. Atto secondo – La scena si svolge nel tinello della casa di Alonzo. Questi invita la moglie a portare a letto la bimba, ma la sua agitazione insospettisce Isabella che chiede chiarimenti sulle partite. Alonzo insiste per portare a letto la bimba e chiede di licenziare anche la domestica, Annalena, che farebbe bene a stare al capezzale della madre gravemente ammalata e di non ritornare prima di mezzogiorno. Isabella scopre la verità delle tre partite perse e la posta in gioco della terza e protesta per essere stata venduta all’uomo che spasimava per lei e che si allontanò dal paese quando si sposarono. Isabella, sicura di poter resistere a Don Ramon, accetta il sacrificio solo per evitare che Carmencita non cresca fra gli stenti in contrapposizione alla vita agiata sognata per lei. Alonzo va via. Isabella spegne la luce e va in camera da letto dalla piccola. Furtivamente entrano i due ladri che si fanno luce con una lampadina cieca. Mentre osservano la disposizione delle camere sentono picchiare discretamente due volte dalla parte del giardino e si nascondono. Isabella compare, accende la luce e apre a Inigo che l’abbraccia freneticamente. Isabella rimprovera l’amante per l’imprudenza di presentarsi senza preavviso; ma lui sa che Alonzo sarà fuori per la notte…e quale migliore occasione per stare insieme una notte intera anche senza la cameriera. Isabella lo respinge adducendo un brutto presentimento, come se l’allontanamento di Alonzo fosse una trappola per sorprenderli. Inigo insiste a voler restare ma Isabella gli promette che se questa notte lui va via in seguito lei sarà sempre sua e solo sua. Inigo a malincuore va via; Isabella ritorna nelle camere. I due ladri ricompaiono sulla scena; contemporaneamente Don Ramon si avvicina alla porta a vetro dell’ingresso facendosi luce anche lui con una lampadina cieca e stringendo in pugno una piccola pistola. Apre, entra, chiude la porta scorrevole e si siede; batte le nocche sul tavolo. Isabella compare e chiede il perché della visita. Don Ramon le dice il motivo che certamente lei ha saputo dal marito. Isabella gli chiede quale diritto ha di disporre in quel modo di lei. Don Ramon che non si aspettava di affrontare una questione di diritto cerca di tranquillizzarla dicendole che non è un bruto, che ancora l’ammira e che lei non può aver dimenticato la storia antica e il suo buon comportamento dopo averlo rifiutato per sposare l’insulso Alonzo. Ha fatto tutto ciò per dimostrarle che nel suo cuore ancora cova l’antica passione e per una rivincita sulla vita che lo ha reso usuraio dopo che nessuno aveva creduto nelle sue qualità. L’oro, invece, gli si attacca alle mani e si moltiplica. È ricco ma gli manca la felicità che ha sognato per una vita intera: stare con lei, almeno una notte per provare cosa significa possederla. La discussione animata sveglia la bimba; per tacitarla la madre le dice che sta discutendo con il papà. Dalla discussione fra i due, Don Ramon viene a conoscenza del fatto che lei ha già un amante ottenendo la conferma del pettegolezzo al quale lui non ha mai creduto. Questa notizia manda su tutte le furie Don Ramon che vuol saper il nome di costui. Dopo insistenza Isabella glielo comunica: è il giovane Inigo, al quale lei si è concessa spontaneamente. Don Ramon si sente tradito da uno che non ha dovuto fare alcuna corte a Isabella, mentre lui per anni non aspettava che il momento propizio per possederla, anche se solo per una notte. Isabella cerca di calmarlo promettendogli che Igino non sarà mai più sua e che è disposta a confessare al marito il suo tradimento; ed in più non può essere posseduta da Don Ramon dopo essere stata macchiata dall’adulterio con Inigo. Don Ramon furioso vuole vendetta; riprende la lampada e la rivoltella e va via. Isabella va nella camera della figlia. Pedro attraversa prima la scena spingendo verso l’uscio Valerio, che porta un carico di roba, e poi ritorna nel corridoio. Nella breve pausa si odono in successione il vociare di un alterco senza poter distinguere le voci e due colpi di pistola. Isabella esce dalla camera, si avvicina all’invetriata; sente un urlo seguito da un lamento. Schiude l’invetriata ma la richiude subito sentendo mancarle le forze. Sviene. Pedro esce dal corridoio e corre verso l’uscita scavalcando il corpo di Isabella ben conscio che in quella casa fra poco ci sarà parecchia gente.
Atto terzo – Stessa scena del secondo atto. Questo atto è interamente interessato dalle indagini condotte dal Commissario e dal Brigadiere coadiuvati da due Agenti. Vengono interrogati nell’ordine, la moglie dell’oste, il garzone, la cameriere Annalena, Pedro, Valerio, Giacomo, che devono spiegare le incongruenze apparse agli investigatori sugli spostamenti di Alonzo che appare fortemente indiziato dell’omicidio di un uomo, del quale si fa il nome solo verso la fine della commedia, creando una notevole suspense nello spettatore. Anche l’interrogatorio di Isabella si fa complicato per una serie di riscontri non coincidenti con i tempi di partenza e di ritorno del marito; per il fatto che lei sia svenuta ancora vestita per l’ora inoltrata della notte; per la porta di casa socchiusa mentre Isabella ricorda di averla chiusa prima di svenire, ecc. Arriva Alonzo che trova la porta piantonata e la casa piena di gente non sapendo cosa sia successo. Interrogato dal Commissario, appaiono evidenti le contraddizioni sul previsto orario di ritorno a casa che è a mezzogiorno per il garzone dell’osteria e la sera per la moglie; la decisione di mandare via la cameriera con la scusa della madre ammalata che tanto grave non è; la testimonianza della piccola Carmencita che conferma di non aver visto il padre ma sentito la mamma dirle “Stai tranquilla, è papà” mentre lei discuteva animatamente con Don Ramon. Per il Commissario, a uccidere Inigo con la complicità di Isabella sarebbe stato Alonzo, che avrebbe finto di partire per tornare indietro e uccidere l’amico. A questo punto si fa avanti Don Ramon, che s’impone al Commissario perché secondo lui non è stato Alonzo a uccidere Inigo, cosa che è possibile appurare controllando la sua pistola, la quale, in effetti, al Brigadiere inquirente risulta pulita. Ed aggiunge che Inigo è stato a casa sua a giocare a carte fin vero le tre di notte. Nel frattempo, si odono le urla di Annalena provenire dalle stanze messe a soqquadro dai ladri. Quindi, secondo Don Ramon, ad uccidere Inigo sono stati il ladri intercettati quando finita la partita a carte si era avviato verso casa costeggiando il muro del giardino di Alonzo e Isabella. Anche l’orario coincide con le testimonianze già rilasciate così come i segni della colluttazione in giardino sono evidenti. E si sa che i ladri sparano quando vengono sorpresi. Mentre tutti si avviano per uscire, Don Ramon e Isabella restano soli. Questa ringrazia Don Ramon per averla salvata. Lui partirà e andrà lontano per sempre.
Essendo stata rappresentata, di questa commedia sono disponibili alcune considerazioni critiche che Teresa Lopez riporta nella sua tesi. Secondo i pareri critici la vicenda drammatica è apparsa meno incerta, sconnessa e contraddittoria rispetto ad altre commedie di Piero Delfino Pesce e, soprattutto, non ha dato l’impressione di essere pericolante fra il dramma e la farsa, il “giallo” e il grottesco (Vice, La Tribuna, 16.01.1938) . La commedia non è negativa dal punto di vista del dialogo. Il disordine è nella trama, nei personaggi che agiscono confusamente, mentre il primo atto è statico, e nella complicazione di quei ladri che entrano ed escono indisturbati nella casa e nell’ultimo atto mettono nel sacco l’ispettore di polizia e i suoi segugi con una semplicità da operetta….Ci sono mutamenti di tono, immissioni arbitrarie di comicità nell’azione drammatica. La perizia dell’autore, tuttavia, si rivela nel fare accettare queste situazioni e risoluzioni scabrose, ma nel farle accettare con la tecnica del dialogo, senza che la vicenda in se stessa riesca a convincere gli spettatori…..Il lavoro è stato messo in scena da Anton Giulio Bragaglia molto bene. Bragaglia, consumato regista, accurato, abile e geniale consigliere, è riuscito a tirar fuori dalla commedia tutto quello che era possibile mettere in rilievo e, a piene mani, ha profuso colore specie negli effetti comici e parodistici. (L. A., Il Giornale d’Italia, 16.01.1938). Comunque, malgrado questi giudizi severi, i quotidiani dell’epoca riportano che La partita a carte riscosse cordiale successo di pubblico.

 * Vitangelo Magnifico, Ricordo di Napoli e La partita ascopa,  in “Città nostra”, a. XIV,  n. 145, settembre 2015.

Non è un pregiudizio e Trittico*

di Vitangelo Magnifico

Continuando la lettura delle opere teatrali di Piero Delfino Pesce, questo numero di Città nostra propone la decima e l’undicesima delle tredici, Non è pregiudizio e Trittico, rispettivamente del 1936 e del 1937, entrambe inedite e mai rappresentate. Le precedenti opere sono state ricordate su Città nostra nei numeri 132, 134 e 137 del 2014; e 142, 144 e 145 del 2015.

Non è un pregiudizio (1936), in tre atti, è la classica commedia sentimentale che ha come personaggio principale Don Clemente, scapolo, quasi cinquantenne rampollo della nobile famiglia dei Marchesi Bigarria, buon musicista, molto religioso, di indole buono e mite e con due difetti. Di questi, uno è evidente, la balbuzie, che quasi insignificante nelle battute normali diventa scoppiettante nei momenti di allegria e asfissiante in quelli d’ira e di dolore; l’altro, riconosciuto dai più, è la fama di iettatore, alla quale egli non crede tanto da scherzarci su con gli amici e che, comunque, non  utilizzerebbe per far del male o ricavarne un utile come pretende Rosario Chiarchiaro in La patente (1917) di Luigi Pirandello. Don Clemente, comunque, è una vittima dei pregiudizi e dei preconcetti anche delle persone colte che gli produce un tormento delle gioie più comuni riservate ai suoi simili. La pessima nomea, che non gli permette rapporti sociali paritetici, lo ha reso timido ed impacciato, soprattutto con le donne.

Atto I - La commedia è ambientata a Potenza e la scena si svolge nel salottino di passaggio del palazzo del Marchese Gino Bigarria, nipote di Don Clemente. Nel salone a destra è in corso la festa per le nozze della signorina Maria, sorella di Don Gino, il quale è impegnato ad impedire l’ingresso nel salone di Don Clemente onde evitare inconvenienti tali da rovinare la festa di Maria già provata dalla recente morte di entrambi i genitori. Mentre Don Clemente viene relegato in cucina, nel salottino, tra il via vai di camerieri, gli ospiti s’incontrano, si salutano ed esprimono giudizi sugli sposi di elogio o di sarcasmo a secondo delle circostanze. Giunge il tempo per Antonietta, giovane cantante e allieva prediletta di Don Clemente, di cantare l’Ave Maria da questi composta in omaggio alla sposa. Don Gino con scuse varie impedisce a Don Clemente anche di accompagnare al piano la cantante; questi sarà forzatamente sostituito da un’altra sua allieva, Giovannina. Mentre nel salone si sente intonare l’Ave Maria, i convenuti commentano le doti di iettatore di Don Clemente, ricordando che a venti anni si era innamorato di una vedovella che morì poco prima del fidanzamento, che a trent’anni si era innamorato di una giovinetta che morì pochi giorni prima delle nozze, mentre a quarant’anni, un’altra promessa moglie impazzisce qualche mese prima delle nozze! Alla fine dell’Ave Maria tutti vogliono complimentarsi anche con il compositore che viene spinto a forza nel salone dove viene sommerso dagli applausi e dal fragore per il crollo della base di un pesante candeliere che sfiora Donna Olga, moglie del padrone di casa, sporcandole con la cera l’elegante abito. I commenti si fanno ancora più sarcastici con la discussione sui fenomeni scatenanti da Don Clemente. Intanto nel salottino Antonietta rimane sola con Pietro, giovane laureato in legge, violinista dilettante ed allievo di Don Clemente, che conferma alla giovane la volontà di sposarla malgrado l’opinione contraria di suo padre, l’Onorevole Bevieri, che lo vorrebbe prima professionalmente sistemato. A conclusione del dialogo fra i due giovani, canzonatorio da parte della ragazza e serioso dal parte del ragazzo, Pietro prende la decisione di affrontare il padre, promettendo ad Antonietta di farlo alla prima occasione. Intanto giunge l’On. Bevieri, che saluta gli sposi, i padroni di casa e gli invitati. La sposa distribuisce i confetti versandoli con un coppino d’argento in un sacchetto tenuto aperto nelle mani degli invitati. Per Don Clemente, il nipote ha preparato, ad arte e per scherzo, un sacchetto scucito sul fondo, sicchè i confetti cadono sul  pavimento fra la sorpresa degli sposi el’ilarità degli astanti. Alla fine dell’atto, chiacchierando fra amici, l’On. Bevieri chiede a Don Clemente di far qualcosa per liberarlo dal Sottosegretario Batelli, che gli aveva dato del novellino in risposta ad una sua interrogazione parlamentare. Don Clemente, stando allo scherzo, pronuncia con fare serioso e con molta energia la formula iettatoria. Tutti ridono avviandosi verso il buffet.

Atto II - La scena, che resterà immutata nell’atto successivo, rappresenta la stanza da studio e da ricevimento in casa di Don Clemente. L’Autore così la descrive: La comune è a destra; altra porta a sinistra, verso il fondo; finestra in fondo verso destra. Mobili pesanti, di altri tempi. Quasi nel centro un tavolo con piedi scolpiti; in fondo un armadio-libreria; a sinistra un pianoforte verticale sormontato da un grande crocifisso attaccato al muro; a destra, di fronte la pianoforte, un vecchio divano. La domestica Mariagrazia serve il caffè a Don Clemente quando sentono dalla finestra lo strillone annunciare la morte improvvisa del Sottosegretario Batelli. La lettura del giornale fa chiaramente intendere che il politico è stato colpito a morte in un momento di poco successivo al lancio del maleficio. Ne è convinto anche l’On. Bevieri, giunto per complimentarsi con un addolorato ed esterrefatto Don Clemente. L’Onorevole, è lì per un problema che considera ancora più serio: suo figlio vuol sposarsi; pertanto, chiede a Don Clemente di dissuaderlo approfittando degli incontri per le lezioni di violino. Don Clemente, a malincuore, accetta. All’arrivo di Pietro, dopo le satiriche frecciatine di questi sulla morte del Sottosegretario e i continui tentativi d’impugnatura del violino per l’inizio della lezione, Don Clemente vorrebbe venire al sodo e assolvere il compito per farlo rinsavire secondo la volontà del padre. Ad ogni tentativo del Maestro di iniziare il discorso formulando gli ostacoli alla carriera che un precoce matrimonio comporta, Pietro sorvola, lo invita a suonare ed espone la sua tesi a favore dei vantaggi del matrimonio fra giovani. Anzi, considerati i fraterni rapporti esistenti fra il padre e Don Clemente chiede a questi di intercedere perché ha deciso di sposare comunque e a breve la ragazza che ama. Anche perché l’idillio è nato in quella casa, essendo Antonietta la ragazza in questione. A sentire il nome della sua allieva  prediletta, Don Clemente ci resta male e accusa Pietro di aver approfittato delle ragazze che vanno a lezione da lui; è furente perché lui ha un debole per la giovane della quale è segretamente innamorato. Gli rinfaccia addirittura di avergli pagato il mensile solo per approfittare delle lezioni per circuire le ragazze. Perciò, il mensile che gli ha portato in una busta non lo vuole e caccia il giovane in malo modo strappandogli di mano il violino per chiuderlo nella custodia; ma dimentica di restituirgli la busta con i soldi. Mentre Don Clemente cerca di riprendersi con alcune boccate di sigaro, Antonietta chiede il permesso di entrare. Don Clemente è sorpreso ma si riprende subito. Lei è lì per la lezione di canto anche se preferirebbe rimandare per permettere al maestro di riposare per riprendersi dalla evidente stanchezza accumulata con la festa di matrimonio; ma lui ribatte che non potrebbe mai riposare sapendola in casa, soprattutto dopo la splendida esecuzione della sua Ave Maria, che ha ancora nelle orecchie, nella testa e nel cuore. Parlando della festa e degli incontri che si fanno ai matrimoni, Don Clemente allude ad un bellimbusto che l’avrebbe lì importunata. Antonietta non capisce a chi si riferisce. Quando il maestro nomina Pietro, lei lo difende giudicandolo un giovane serio. Per Don Clemente è invece la finta serietà di chi vuol conquistare una brava ragazza; lei non può capire, è troppo giovane per conoscere bene gli uomini. Antonietta ribatte di non essere sciocca nonostante i suoi diciotto anni. Don Clemente insiste invitandola a dimenticare tutto e ad annegare qualsiasi illusione perché l’onorevole non darà mai il consenso alle nozze. Antonietta scoppia in lacrime che tanto colpiscono Don Clemente, il quale si rende conto che i due giovani sono d’avvero innamorati e decisi a continuare il loro percorso di vita in comune. Antonietta chiede al maestro di intercedere presso l’onorevole e gli strappa un giuramento sul grande crocifisso posto sopra al pianoforte. Tornerà domani per la risposta. Don Clemente rimasto solo chiede al crocifisso di sorreggerlo e manda al diavolo la cameriera che gli porta il caffè.

Atto III - Stessa scena dell’atto precedente. Piero e Antonietta sono a casa di Don Clemente per salutarlo prima di partire. Hanno poco tempo perché a due giovani non ancora ufficialmente fidanzati non è consentito stare e andare da soli. E ciò sorprende il Maestro; ma è uno strappo alla consuetudine solo perché sono a casa sua dove Pietro deve scusarsi per il comportamento avuto durante il precedente incontro. Don Clemente è visibilmente addolorato per la perdita della sua allieva preferita e per il fatto che lei deve abbandonare le lezioni di canto nonostante una bellissima voce. Antonietta chiede al maestro due nuove Ave Maria per il fidanzamento e il matrimonio; ma Don Clemente è irremovibile nel negarle perché non darà più lezioni e non scriverà più musica. È troppo deluso dal comportamento di Antonietta che non vuol seguire il suo consiglio: sotto la sua guida poteva diventare un grande soprano. Dalle battute di addio s’intuisce che Don Clemente vuol sparire. Andati via i due giovani, Mariagrazia annuncia la visita del falegname che viene a chiedere il compenso per i lavori fatti. Don Clemente, che sconvolto non vuole riceverlo, le ordina di dare al falegname, che ha dieci figli, tutto il contenuto della busta lasciata da Pietro. Mariagazia, considerando eccessivo il contenuto, cerca maldestramente di trattenere qualcosa per sé; Don Clemente se ne accorge e va su tutte le furie. Nel frattempo entra Gaetano Tangenti che porta a Don Clemente la notizia che la giunta di Vigilanza delle Orfanelle, in seduta plenaria, ha deliberato di esonerarlo dall’insegnamento di musica e canto corale a causa della ben nota nomea. Don Clemente sulle prime resta male per una decisione presa dopo ben ventitré anni di insegnamento, per di più poco retribuito. In seguito, cambia idea e decide di non fare ricorso come gli consigliava l’amico Tangenti, che ha preferito avvisarlo prima che giungesse la raccomandata per posta. Ormai è stanco di questa storia; non ne può più e ha deciso di farla finita e assicura l’amico che non si tratta di un atto estremo: non ha mai fatto sciocchezze in vita sua. Comunque, cosa farà è un segreto che non può ancora svelare. Dopo la partenza di Tangenti arriva il nipote Gino con Olga, sua moglie. Don Clemente con una scusa manda la cameriera fuori di casa per restare solo con i nipoti. Tra il parlare serio di Don Clemente e quello canzonatorio di suo nipote, spesso richiamato dalla moglie, Don Clemente dichiara il proposito  di voler sparire: andrà nel convento dei Camaldoli a Napoli lasciando a loro ogni avere; ma il gruzzolo, una quarantina di biglietti da mille, accumulato e tenuto nascosto in un cassetto chiuso a chiave dietro al pianoforte, deve andare alle Orfanelle. Quando Don Clemente resta solo e sconsolato sente il rumore di un’automobile che si ferma sotto casa. Entra Antonietta che è corsa a salutare da sola il suo Maestro prima di ritornare in paese accompagnata dal fratello. Lo ringrazia per tutto il bene che le ha fatto. Don Clemente si rammarica che lei lo lasci pur sapendo che lui le ha sempre voluto bene e accusa Pietro di aver rovinato tutto con la sua presenza. Le comunica che andrà via per non rincontrarla mai più. Lei gli chiede un bacio di addio, ma Don Clemente rifiuta (“Un bacio!... Vuoi?....No! Fatteli dare da lui”); prende, invece, le mani di lei e vi abbassa sopra la testa. Lei delicatamente libera le mani da quelle di Don Clemente e va via. Dalla finestra, Don Clemente vede la macchina allontanarsi; tremante, si gira; abbassa le braccia e sussurra: “Addio!.... Addio!”.

Trittico (1937) - La commedia prende il nome dai tre diversi stati d’animo e situazioni dei due personaggi, Jole e Vezio, che partecipano ai tre atti. Anche in questo caso si tratta del rapporto fra una giovane allieva e un maestro. L’amore fra i due è contrastato dalle convenzioni sociali; il drammatico superamento degli ostacoli ha lasciato, però, segni indelebili nel fisico e nella mente, soprattutto della giovane, che da allegra innamorata si trasforma in sposa depressa. È la commedia a sfondo psicologico di Piero Delfino Pesce, che utilizza la pittura - e il richiamo agli impressionisti - per sviluppare la sua più difficile opera teatrale dal punto di vista interpretativo sia per i dialoghi intensi che per le mutevoli condizioni d’umore dei personaggi. Ovviamente, la sintesi che segue rende solo in minima parte il valore di questa opera teatrale di Piero Delfino Pesce, facilmente ascrivibile al suo periodo di maggiore maturità artistica ed intellettuale.

Atto I – La scena rappresenta una radura in un bosco con, sulla destra, la facciata della casetta del guardiacaccia quasi nascosta dai rampicanti. È l’ora del tramonto; mentre Vezio, giovane e bravo pittore non ancora famoso, seduto su un sediolino pieghevole dipinge una tela poggiata su un cavalletto da campagna, compare Jole anch’essa equipaggiata con gli strumenti del pittore. Entrambi sono sorpresi dell’incontro. Dal dialogo si comprende che Vezio si è rifugiato da una decina di giorni nella casa del guardiacaccia, momentaneamente libera, abbandonando, senza darne comunicazione al gruppo di giovani pittrici -di buona famiglia e in vacanza da quelle parti- alle quali dava lezioni. Jole fa parte del gruppo ed è l’allieva più dotata e preferita dal maestro. Jole è giunta nella radura attratta dalla bellezza del bosco e alla ricerca di un paesaggio da dipingere; con la scusa di le amiche partite in una escursione. Con l’allegria che contraddistingue il suo carattere e anche perchè domani arrivano la mamma e il fratello, racconta a Vezio le peripezie affrontate per attraversare il bosco e si scusa per aver scovato il suo nascondiglio segreto e per fargli perdere del tempo in un pomeriggio di ottobre nel momento in cui il sole fugge al galoppo. Curiosa e desiderosa di imparare dal maestro, Jole dà una sbirciatina alla tavolozza sul cavalletto e invita Vezio a continuare. Jole nota alle sue spalle la casetta del guardiacaccia e chiede il permesso di visitarla. Mentre Vezio dipinge, lei entra e visita le stanze commentando la bellezza e l’ordine che vi regna all’interno affacciandosi ripetutamente dalle finestre con allegria. Ha notato che ci sono molti quadri in gran parte abbozzati e un ritratto di una donna bellissima, la moglie del guardiacaccia. È il dono di Vezio per la famiglia che gli ha lasciato la casa durante la vacanza per le terme. Sta scendendo il buio. Jole per poter dimostrare la causa del ritardo fa abbozzare qualcosa da Vezio sulla sua tela. Intanto, lei ha preparato un thè che serve a Vezio poggiando le tazze su un cuscino sul quale si siedono affiancati (come se l’Autore volesse riproporre sulla scena il famoso quadro Le déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet del 1863). Si fa sempre più tardi ma Vezio fa di tutto per trattenerla anche se lei è preoccupata del ritorno al buio nel bosco e per la zia che l’aspetta alla pensione. Ma Vezio le apre il cuore e le fa intendere che è fuggito per paura di un rifiuto ad una sua dichiarazione d’amore. In fondo non è che un pittorello ignoto senza nome che avrebbe dovuto spiegare che non era un miserabile avventuriero che approfittava di una giovane bella, ricca e blasonata. Era fuggito per conservare il segreto che lei ha rotto incontrandolo nel bosco. Anche lei non ha pensato che a lui da quando è fuggito e ha fantasticato un suo improvviso ritorno ma solo per lei, per restaresempre con lei. Si baciano.

Atto II - La scena rappresenta lo studio di Vezio a Milano. Jole è seduta sul divano e sfoglia una rivista in attesa del pittore, che rimane sorpreso e sbigottito dalla sua presenza. Lei, che non ha voluto annunciare il suo arrivo, è entrata perché la custode ha insistito, forse pensando che fosse una nuova modella. Vezio nota che lei è cambiata; ora gli appare cinica e determinata ad affrontarlo a testa alta. Non è più la giovane allegra e accondiscendente verso il maestro che ha conosciuto durante il corso estivo di pittura e . che lo ha fatto innamorare. Lei giustifica lo sbigottimento mostrato da Vezio nel vederla con l’offesa ricevuta con il rifiuto da parte di sua madre che usò toni sprezzanti per allontanarlo dalla figlia. In fin dei conti, lei ricca e lui povero era una situazione che lasciava pensare ad un cacciatore di dote conosciuto occasionalmente durante una gita in alta montagna. La constatazione che lei non aveva ribattuto alla madre mostrando, invece, un atteggiamento remissivo, aveva colpito l’orgoglio di Vezio, così come la mancanza di una qualsiasi reazione da parte del pittore aveva indotto lei a considerarlo al pari di tutti gli altri uomini che sono sempre felici quando possono recuperare la vecchia libertà. Ma lei non è lì per questi discorsi; c’è dell’altro: c’è un giovane che l’ammira, più giovane di lei di un paio d’anni, anch’egli con un blasone e un notevole appannaggio, che ha chiesto la sua mano. La franchezza e la disinvoltura di Jole sorprendono ulteriormente Vezio; ma lei ribatte che ormai non nota alcuna differenza fra gli uomini e giura che si propone di amare quel giovane, come marito, e rispettarlo per tutta la vita, perciò gli dirà tutto senza però fare il nome di chi l’ha posseduta la prima volta. È lì per chiedere a lui di rispettare il suo segreto aggiungendo che non potrà, per questo motivo, essere un suo amante. Vezio si ribella pensando ad un trucco escogitato da Jole per offenderlo mentre lui è vissuto solo nel ricordo di lei e di quella notte di luce. Sono passati dieci mesi da quei giorni e durante questo tempo l’ha cercata ma ha trovato sempre la casa chiusa e non è riuscito ad avere alcuna notizia di lei. Anche lei ammette di averlo seguito nei suoi successi artistici e di conoscere i nomi di tutti i quadri che lui ha venduto. Se non hanno smesso di pensare l’uno all’altra perché non riparare ora che si sono ritrovati. È questa la proposta di Vezio; ma Jole non cede e ribadisce che ha deciso per l’altro senza voler essere l’amante del pittore pur ammettendo che, mentre lui ha lavorato per esprimere la sua arte, lei ha vissuto nel ricordo di quella notte. Per continuare il sogno vissuto nel bosco se non potrà essere l’amante può essere suo marito se gli ostacoli sono superati, propone Vezio. Jole alla fine cede, ma lui deve sapere che è cambiata profondamente nei dieci mesi in cui non si sono visti. E precisa che, quando capì che il suo fisico stava cambiando, lasciò in anticipo il luogo della villeggiatura e per non compromettere l’onore del casato girovagò per l’Italia per nascondere il suo stato. È tornata a casa solo pochi giorni fa. A Vezio che chiede dove sia il bambino, Jole risponde: “Me lo hanno strappato dalle viscere”. “Assassini! Assassini!” è l’urlo di Vezio. A Jole pare di risentire lo steso urlo che emise il padre quando seppe che la moglie, all’insaputa della figlia, aveva deciso per l’eliminazione del bambino in una clinica di Napoli. Il dolore di Vezio, pari a quello del padre, che l’aveva assistita amorevolmente durante la lunga convalescenza, convince Jole dell’immutato sentimento verso di lei. Vezio deve anche saper che lei ha diviso la sua vita fra le due famiglie che i due genitori avevano creato dopo la separazione. Se anche questo può essere un ostacolo, lei sposerà l’altro, senza comunque rivelare il segreto. Vezio è deciso, chiederà subito al padre di Jole il permesso di sposarla. Nella concitazione dei dialoghi Jole da chiari segni di discontinuità di umore e di pensiero che si accentuano quando scorge un ritratto fattole da Vezio che la ritrae bellissima. Lui lo considera il regalo di nozze per lei; ma lei non lo accetta perché le ricorda il passato. Prima chiede a Vezio di mutarne i tratti e venderlo, purchè non si sappia che è lei la persona ritratta, poi chiede di distruggerlo; ma ferma la mano di Vezio che sta per tagliarne la tela: non può sopportare il pensiero che lui l’abbia vista così chiara e distinta in sua assenza. Vezio, che pensa di aver compreso il male che affligge la sua amata, le promette che la porterà via, lontana da tutti, dove potrà guarire le sofferenze che la vita le ha inferto. Vezio cerca di calmarla e consolarla promettendole che le sarà vicino per aiutarla a dimenticare: l’amore potrebbe realizzare il miracolo. Jole, apparentemente lucida, va via senza lasciarsi toccare dal suo futuro marito -che vuole un bacio in pegno- e chiedendo tempo e comprensione.

Atto III - Alle due di notte, in una stanza di uno dei migliori alberghi di Roma, Jole e Vezio entrano dopo una giornata trascorsa con gli amici dopo le nozze. Sono stanchi e Vezio vorrebbe andare subito a letto ma Jole indugia vestita di tutto punto. Jole è apatica; durante il viaggio in treno ha guardato il paesaggio dal finestrino con occhi fissi e spalancati; per tutto il giorno non ha mai sorriso e toccato cibo. Chiede di tenere nella stanza tutti i fiori ricevuti; Vezio, invece, vorrebbe eliminarli o spostarli perché l’aria nella stanza è irrespirabile; Jole si oppone e vorrebbe tenerli fino al giorno successivo magari tenendo aperta la finestra per la notte intera. Vezio sposta i vasi nel bagno riuscendo ad eliminare un po’ di fiori gettandoli, non visto, dalla finestra. Lui pensa che sia la stanchezza accumulata da Jole durante la giornata a renderla ansiosa e quasi capricciosa. Le ripropone di andare a letto a riposarsi ma lei rifiuta decisamente. Di scatto, Jole cambia le scarpe con le ciabatte che gli pone Vezio e, sempre su insistenza dello stesso, si cambia d’abito indossando una vestaglia nascondendosi alla vista del marito. Lui la stimola a parlare, ma lei tace ostinatamente o risponde in modo evasivo manifestando sempre il desiderio di essere lasciata stare. Dalla discussione appare evidente la sofferenza di Jole per la mancanza di una libertà tutta sua, di non poter decidere da sola cosa fare mentre altri decidono per lei come ha fatto la mamma per salvare le convenzioni della casta e come sta facendo Vezio nell’organizzare la loro vita matrimoniale. Dopo altri pretesti di discussione, lui esprime il grande desiderio che ha di lei, ma Jole si ritrae. Vezio cerca di forzare la situazione cercando di baciarla e di possederla ma lei si divincola e gli sfugge dirigendosi verso la finestra che apre di scatto. Vezio la raggiunge con un balzo e la trae a sé; ma lei si libera e si rintana in un angolo. Lo supplica di lasciarla stare; di stare tranquillo perché non vuole ammazzarsi; ormai è cosa sua e potrà fare di lei tutto quello che vorrà. Vezio la convince ad andare a letto da sola mentre lui dormirà sul divano e pregherà Dio affinchè domani lei sia più serena. Jole acconsente; una volta a letto, affonda la testa fra le braccia e piange, sussurrando: “Domani!; ......e domani….!”.

Vitangelo Magnifico, Non è un pregiudizio Trittico, in “Città nostra”, a. XIV,  n. 146 , ottobre 1915

Le diverse strade e La locanda dei quattri venti

di Vitangelo Magnifico

Con questa nota si chiude la lettura e un minimo commento degli ultimi due lavori teatrali di Piero Delfino Pesce (1874-1939), Le diverse strade e La locanda dei quattro venti, entrambi scritti nel 1938, inediti e mai rappresentati. Anche se apparentemente diverse fra loro, con queste due commedie l’Autore presenta due aspetti del modo di fare e di stare in politica, che, purtroppo, da noi sono sempre di grande attualità.
 Nella prima, viene rappresentato lo scontro fra i artiti e le fazioni contrapposte con un chiaro riferimento alla vicenda che Piero Delfino Pesce riportò in Acquedotto Pugliese, storia di un carrozzone (Casa Editrice Humanitas, Bari, 1912 ) dove descrisse la sua battaglia di Consigliere Provinciale contro il malaffare infiltratosi nella realizzazione della più importate opera della nostra Regione.
Il titolo dell’opera fa riferimento alle strade differenti che i personaggi, spinti dagli eventi storici, intraprendono dopo un percorso comune di ideali o di vita. Anche in quest’opera predominano i temi più cari all’Autore: l’impegno politico, l’onestà intellettuale e l’amore, ai quali affida la risoluzione anche dei più aspri contrasti.
Con la seconda, che è la più allegra delle tredici commedie, Piero Delfino Pesce si prende gioco del potere affidato agli sciocchi utilizzando la forma della pochade, tanto in voga in Francia nella metà dell’Ottocento, nella quale intrighi e avventure galanti s’intrecciano e si susseguono, quasi sempre a danno del potente, che nulla può fare per non compromettere la propria carriera, l’onorabilità dell’istituzione che rappresenta e, addirittura, le sorti della Nazione.
Non credo sia esagerato aggiungere, inoltre, che queste due ultime commedie, meglio delle altre, fanno conoscere il carattere dell’Autore, che, da chi lo conobbe, fu descritto come persona gentile, mite e gioviale anche quando lo scontro si faceva duro. A ciò aggiungiamo la suagrande cultura umanistica e scientifica che sempre traspare nei suoi tanti scritti, quindi, anche nelle commedie, che rappresentano, per me, il mezzo migliore per conoscere questo grande Nostro Concittadino, che non a caso, Tommaso Fiore, in Formiconi di Puglia, definì il più gentile fra i fiori del sapere.

Le diverse strade (1938) è una commedia in tre atti ambientata nell’isola di Corfù in un periodo non meglio precisato, ma che dalle battute finali risulterebbe corrispondere agli ultimi anni della Prima Guerra Mondiale. La vicenda descrive lo scontro fra il Ministro, monarchico, dei Lavori Pubblici della Grecia, Nicola Zenoballo e i giovani dei partitipolitici oppositori della monarchia, Teodoro, repubblicano, Giorgio, socialista, e Frosine Majerova, slava marxista, che lo accusano di aver fatto finanziare la bonifica della Val di Ropa con una legge che di fatto favorisce la ditta appaltatrice, la Società Franco - Ellenica, che potrebbe non realizzare compiutamente l’imponente opera pur ricevendo in grande anticipo l’intero compenso pattuito a fronte di una risibile penale.

Atto I - La scena si svolge nello studio della casa del Ministro Zenoballo, il quale, circondato dai suoi due figli, Elena, giovane avvocato, e il giovanissimo Spiridione, dal Segretario Davide Marsigliae da Kirrizzis, il mazziere del politico, ascolta, attraverso ciò che giunge dalla finestra, il comizio che i giovani antagonisti tengono nella piazza sottostante. Alle accuse di Teodoro, Giorgio e Frosine che si susseguono come relatori, il pubblico risponde con applausi mentre i presenti nella stanza reagiscono con veemenza alle accuse alquanto meravigliati dalla calma del Ministro, che non ha dubbi su come smontare le accuse anche in virtù dell’impegno da lui profuso per far approvare e finanziare dal Parlamentoun’opera a lungo richiesta dai cittadini, che, in tal modo, avranno un’area bonificata e tanta terra buona da coltivare. Ovviamente Kirrizzis saprebbe come rimediare alle offese e alla richiesta di un esitazione e con quasi divertita bonomia e indulgenza verso i giovani. Alla fine del comizio, il Ministro si affaccia alla finestra e parla alla gente dicendo che gli è stato riferito ciò che è stato affermato in piazza attaccando un’opera per la quale qualunque corfiotto sarebbe orgoglioso di legare il suo nome per itanti benefici che porterà nella valle. Erisponde ai contestatori accusandoli di non conoscere in pieno né il progetto néla legge che lo sostiene. Quindi, non parleràpiù in pubblico su questa questione che lui considera un affare chiuso. Chi ha obiezioni le ponga pe e Frosine, alla presenza dei suoi figli e consiglieri. Alle accuse, anche aspre e tipicamente arroganti dei contestatori, ilMinistro risponde in modo evasivo tanto che si arriva all’accordo di organizzare un incontro in cui chiarire la questione. Mentre si discute, chiedono di entrare l’Igùmeno di Paleoca ringraziarlo dell’impegno profuso nella risoluzione dei tanti problemi che affliggono i cittadini. Il Ministro approfitta della circostanza per chiedere all’Igùmeno se venendo in città ha notato se c’erano operai a lavoro nella valle. I’Igùmeno risponde affermativamente e con entusiasmo per l’opera in corso. Per il Ministro è la conferma che non mentiva sulla serietà della ditta appaltatrice. Mentre i monaci stanno per uscire, Davide chiede all’Igùmeno se ha trovato un’agenda presso lo scrittoio del monastero che ricorda di aver dimenticato quando ha appostola firma da visitatore. L’Igùmeno che, non ha notizia dell’agenda, si riserva di intervenire presso Calògero il portinaio e fargliela pervenire senza indugio.Quando i religiosi vanno via, le parti si accordano per un incontro in campo neutro nella sede della Panellenica per quella stessa sera. Rimasti soli, il Ministro e i suoi decidono di inviare all’incontro per raccogliere le domande per iscritto Elena, che ha frequentato l’università nello stesso periodo del repubblicano Teodoro, con il quale non aveva avuto alcun rapporto di amicizia pur essendo, all’epoca, gli unici due ciprioti a frequentare i corsi di giurisprudenza.

Atto II Nella sede della Panellenica, i giovani Teodoro, Giorgio, Leonida, Marco e Frosine discutono sulla decisione presa di salire dal Ministro dopo il comizio e dagli esiti  dell’incontro con Elena, alla quale hanno consegnato le domande per il padre e che sarà lì fra poco con le risposte. Ovviamente, ci sono dei ripensamenti e delle divergenze che fanno emergere le diverse posizioni in base alle differenti ideologie. Qui, Piero Delfino Pesce fa emergere il suo punto di vista sulla lotta politica che affida prevalentemente al repubblicano Teodoro, alquanto contestato dai suoi amici che vorrebbero essere più pratici e sbrigativi e vorrebbero risposte scritte dal Ministro mentre lui ha concordato risposte verbali poiché mai un politico navigato scriverebbe che ha torto. Teodoro che è l’ideologo del gruppo, dopo uno scontro aspro, convince gli altri che a incontrare Elena ci sarà solo lui. Arriva Elena che resta solo con Teodoro che le chiede le risposte. Questa riferisce, a nome del padre, che una legge migliore di quella approvata per la bonifica sarebbe stata difficile da compilare.Entrano nella discussione del piano di finanziamento dell’opera che prevede un esborso rateale per lo Stato in cinque anni mentre la fine dei lavori è prevista entro dieci anni. Elena ribatte pur notando le incongruenze della legge. Fino a quel momento i due si sono dati del lei. Teodoro per essere più franco propone di darsi del tu. E spiega che quando ha sentito  dell’agenda dimenticata da Davide al monastero, con un veloce cavallo si è recato lì prima che giungessero l’Igùmeno e il Calògero. Ha chiesto di firmare il registro delle presenze e ha trovato l’agenda. Approfittando dell’assenza del Calògero custode l’ha sfogliata e, avendo notato appunti compromettenti, ha fotografato le pagine che dimostrano l’interesse del Ministro nella realizzazione della bonifica. Elena, che crede nell’onestà del padre, si ribella. Teodoro le mostra le foto. Il lauto compenso ricevuto dal Ministro, che è anche azionista dalla Società Franco-Ellenica, figura sotto forma di viaggio e permanenza a Parigi di pochi giorni che  stridono con la cifra ricevuta. L’intermediario fra il Ministro e la Società è l’ebreo francese Davide Marsiglia. Intanto si odono dei passi alla finestra. Pensano siano il mazziere Karrizzis o i compagni di Teodoro; ma, ad un controllo, nessuno viene scorto. Mentre Elena, sconvolta, chiede di andar via, entra suo padre che sulleprime smentisce di avere rapporti con la Società Franco-Ellenica se non per motivi d’ufficio. Ma deve cedere davanti alle prove di Teodoro. La figlia convince il Ministro che Teodoro non vuol ricattarlo ma semplicemente costringerlo a migliorare la legge. A questo punto l’Autore propone, per bocca di Nicola Zenoballo, un interessante monologo sui motivi che portano alla corruzione un politico, il quale spesso si trova nelle condizioni di dover sopravvivere con la famiglia quando l’impegno sociale gli fa perdere i proventi derivanti dalla propria professione. Senza i denari versatimi dalla Franco-Ellenica per la conclusione di questo affare, in casa nostra, Lenuccia, non si sarebbe più mangiato. E nella casa dell’uomo pubblico bisogna non soltanto mangiare ma dare a mangiare. Questa seconda partita è molto, senza misura più importante della prima. Soccorsi, elargizioni, e lusso, lusso visibile, tangibile, impressionante, che,  finchè il popolo è quello che è, è l’unico indice, l’unica espressione di grandezza”.  IMinistro ribadisce l’utilità dell’opera e promette che farà di tutto per correggere la legge che la finanzia. E propone a Teodoro di conservare le foto da utilizzare come ricatto morale e che potrà mostrare se la legge non sarà modificata secondo le sue indicazioni. Subito dopo l’uscita di Zenoballo ed Elena si sentono delle voci con un crescente trambusto. Elena chiede a Teodoro di difendere suo padre. Teodoro si lancia fuori e si ode uno sparo. Teodoro, privo di sensi, viene trascinato sulla scena e messo a sedere con il capo poggiato sul tavolo mentre Kirrizzis gli tampona una ferita sul petto con un fazzoletto. Zenoballo chiede di chiamare un medico e di avvisare la polizia. Intanto Elena nota che Teodoro è vivo.

Atto III – Sul terrazzo del convento dell’Isola di Vado, il convalescente Teodoro è seduto al sole su una poltrona di vimini con una leggera coperta sulle gambe ed aspetta di riceve le prime visite finalmente permesse dalla polizia che ancora indaga sul tentato omicidio. La prima a visitarlo è Frosine che gli chiede se ricorda l’accaduto e se ha visto chi gli ha sparato. Purtroppo, Teodoro ricorda poco della prima settimana dopo l’incidente. Intanto Kirrizzis viene a ringraziare Teodoro per averlo scagionato dall’accusa di essere stato lui a colpirlo. Teodoro gli chiede di Elena e apprende che tra poco lei sarà lì per incontrarlo. A Frosine che gli chiede con insistenza sull’accaduto e che afferma che lui non può non aver visto chi ha sparato, Teodoro risponde: “Posso aver identificata la mano, ma non la mente”, e da avvocato aggiunge:  ”Io studiando penale, mi sono sempre domandato perché il delitto politico, presso tutte le nazioni civili, sia punito assai più lievemente del delitto privato. Ora me ne rendo conto perfettamente. Nel delitto privato il committente e l’esecutore si identificano quasi sempre nella stessa persona; invece nel delitto politico…”.”…Quante volte ho tuonato nella nostra saletta di riunione, contro i traditori, sulla necessità di punirli, di non rifuggire, occorrendo, dall’azione violenta…Qualcuno non ha inteso a sordo”. In questo modo Teodoro giustifica l’azione di Marco, l’indiziato principale secondo Frosine: “ (Sono stato) Istigatore e vittima nello stesso tempo. Al povero ragazzo, per metà impulsivo per metà idiota, non è parso vero di praticare alla prima occasione i miei insegnamenti, e contro il proprio maestro”. Dalla conversazione con Frosine, Teodoro apprende  della fortuna politica di Demetrio che ha saputo approfittare della debolezza di Nicola Zenoballo e di essere stato eletto al parlamento al posto dell’ex-Ministro che elegantemente si è dimesso da deputato. Mentre Teodoro chiede a Frosine che ne è della guerra, entrano Elena e Nicola. Questi ringrazia un meravigliato Teodoro per aver fatto da scudo al proiettile a lui destinato. Elena informa Teodoro che lei e il padre partiranno quel giorno stesso per la Francia per soccorrere il popolo francese in guerra. Lei è stata arruolata fra le crocerossine. Anche Frosine parte; ritorna nella sua terra. Intanto cala la sera. Teodoro è solo e pensa. Giunge Elena in divisa da crocerossina per un ultimo saluto. Teodoro, a Elena che gli chiede se andrebbe in Francia per stare con lei, risponde che la sua meta è Roma per rendere omaggio ad Antonio Fratti, il repubblicano garibaldino morto nella guerra Greco-turca in difesa della Grecia. Ognuno prende la sua strada pur sperando di rincontrarsi in futuro. I due si salutano con un lungo bacio.

La locanda dei quattro venti (1938) - L’ultima commedia di Piero Delfino Pesce è anche l’unica in quattro atti. La vicenda si svolge all’esterno e all’interno di una locanda della Guascogna, il cui proprietario, Giacomo, ha un figlio, Renato, Sottosegretario all’Istruzione, pur essendo stato il peggiore studente della locale scuola tanto da non riuscire neanche a raggiungere la licenza. Inserito come scribacchino in un sindacato, Renato, gridando sempre più forte alle assemblee, riesce a scalare posizioni gerarchiche fino a diventare Vice-Ministro. Sua madre è Maria, che lo ebbe da una relazione con un Senatore, il quale pagò i debiti accumulati dal padre di Giacomo; questi, in pegno, sposò Maria. Giacomo, da parte sua, ha una figlia, Eloisa, avuta da un’altra relazione. L’elevato numero di personaggi comporterebbe una lunga descrizione dell’opera poco compatibile con il limitato numero di pagine di questo mensile; quindi, per la sintesi dei quattro atti mi affido, con qualche piccola integrazione, a quanto riportato da Teresa Lopez nella sua Tesi di Laurea Critica e scrittura teatrale nell’opera di Piero Delfino Pesce (Università degli Studi di Bari, Anno Accademico 1996-1997).
Episodio centrale della commedia è il ritorno a casa, e quindi alla locanda, di Renato, dopo ben sette anni. Il Vice-Ministro della Pubblica Istruzione vi giunge con il suo segretario particolare, Salvagnac. Assistiamo a tutte le cerimonie per festeggiare il ritorno di un concittadino che è diventato un potente uomo politico al quale chiedere qualche favore per la scuola del paese o per la personale carriera. Non mancano cori di bimbi e inni scritti per l’occasione, che, obtorto collo, il Vice-Ministro deve sopportare ed elogiare. La vicenda si complica con l’arrivo dell’amante, Loletta che, per evitare lo scandalo, viene fatta passare per sua moglie Adriana, poco riconosciuta anche dai parenti del politico.
Anche Adriana non tarda ad arrivare alla locanda di passaggio per Lourdes. Per non creare lo scandalo viene convinta da Renato e Salvagnac a fingersi una funzionaria del ministero che, in attesa di una nomina superiore, è lì per incontrare il Vice-Ministro. Tutta la vicenda è un susseguirsi di intrighi, di rapporti clandestini intersecati: Renato-Loletta, Adriana-Vardat (un professore di latino ospite della locanda, già amante della donna), Salvagnac-Maria (come già detto non nuova ad avventure galanti), Fricotin- Eloisa (lui figlio della sorella di Giacomo), ecc. Tutti questi tradimenti, ipocrisie, falsità riflettono sia la vita politica che quella privata. La commedia sembra concludersi con la fuga di Loletta e Adriana con due spasimanti e, quindi, con l’abbandono di Renato, che con la caduta del Governo non ha più potere. Quando le due donne leggono sul giornale che nel nuovo Governo i Ministri saranno sostituiti dai Vice-Ministri di quello precedente, le due donne ritornano, spiegano le loro reali identità, ottengono il perdono e e….comincia la girandola degli intrighi e delle ipocrisie.

Vitangelo Magnifico, Le diverse strade e La locanda dei quattro venti,  in “Città nostra”, a. XIV,  n. 147, novembre 2015.

I 100 anni di Mariella Pinto*

Il 30 ottobre scorso, presso la Casa di Riposo Regina Pacis di Monopoli, la molese Mariella Pinto ha festeggiato il suo 100° compleanno. Oltre ai due fratelli Enzo e Vittorio e alla sorella Nene, a festeggiare Mariella c’erano tutti i residenti della casa di riposo con le maestranze e tanti amici di Monopoli e Mola.
Fra questi ultimi non potevano mancare i più cari amici (Rosa Bellantuono, Lia e Francesco Marinelli, Peppino Tanzi, Vitangelo Magnifico) della Compagnia Filodrammatica Molese che negli anni Settanta avevano recitato con Mariella in commedie andate in scena al “N. Van Westerhout” e che chi ha una certa età certamente ricorda.
Con la bella voce e l’imponente statura, Mariella dava alle rappresentazioni degli attori dilettanti molesi un “valore aggiunto” che le derivava dall’aver frequentato ben altri teatri avendo recitato con compagnie professionistiche. Mariella Pinto è nata a San Bartolomeo in Galdo, in Provincia di Benevento, paese della mamma, da dove, nel 1945, la famiglia si trasferì a Mola, paese del padre Vito, in seguito a trasferimento di questi all’Ufficio delle Imposte Dirette di Bari.
Alla carissima Mariella la Redazione di Città nostra porge i più cari e affettuosi auguri di una lunga e serena vita.


* Vitangelo Magnifico, I 100 anni di Mariella Pinto,  in “Città nostra”, a. XIV,  n. 147, novembre 2015.

 

Locandine

Locandina* de La moglie, Napoli, 8 gennaio1897 (* Fondo «PDP», b. 87, fasc. 1).