Poesia come chance 
    Nel 1902 Piero Delfino Pesce pubblica – presso  l’editore Vecchi di Trani – una raccolta di liriche, intitolata Preludio. Il libro contiene cinquantacinque  poesie e si articola in quattro parti. 
          Il senso della sua produzione poetica viene  esplicitato dal sonetto Ad rivum, che  chiude e, insieme, apre la sua  raccolta di versi: 
Passa l’acqua così come il mio verso:
          gorgogliando discende alla marina;
          va senza posa e ognor più si avvicina
          a disparir nel liquido universo.
La sua carezza che le roccie affina,
          la tenacia che fora il sasso avverso,
          tutto, tutto è fatal vada disperso,
          il suon, la limpidezza cristallina.
Il verso mio così passa nell’onde
  dell’umano parlare vario e selvaggio,
          si rompe, si scolora, si confonde;
forse giungendo, inutile messaggio,
          dove nessuno ai detti suoi risponde
          né fior rallegra il penoso viaggio.
Qui Pesce dice in modo evidente ciò di cui gli  scrittori non sempre sono consapevoli: si scrive per essere amati! Il rituale  poetico da una parte apre il soggetto alla comunicazione e, dall’altra, non ne  garantisce l’esito.  L’attività poetica –  proprio perché ricade nell’ambito della meravigliosa  inanità – è dono e, insieme, chance. Chi è primo ad amare si assume il rischio dell’assenza di  reciprocità, è questa la logica del dono. 
  Sul piano stilistico Pesce si ispira – sulla scorta  degli insegnamenti di Armando Perotti – alla poetica carducciana: sceglie con  cura le parole in relazione al timbro, «il  suon»; e ricerca la musicalità  attraverso la rima, «la limpidezza  cristallina». 
  Per quel che riguarda i contenuti, ama il presente  anche se non disdegna di rivisitare il passato. Accanto alle poesie in cui sono  presenti i temi mistico-romantici dell’anima, del cuore, del sogno e del  mistero, vi sono dei componimenti in cui vengono evocate le grandi figure del  passato.
          Il sonetto La  notte è oltremodo interessante, poiché ci fa partecipi del suo pathema d’animo:
Son l’ore della notte quelle in cui
          Meno tranquillo il mio spirito posa:
          forse scende col sol nei regni bui
          per rifornir di fuoco l’operosa
scorta dei sensi; forse quel che fui
          durante il giorno con lena affannosa
          scruta, e, severo nei giudizi sui,
          poche assolve, non loda alcuna cosa.
Alta è la notte, il cuore e il pensiero,
          i due atleti terribili che ho meco,
          lottano per un briciolo di vero;
e mai non cessa l’orrida tenzone:
  questo sangue non ha, quell’altro è cieco,
  e l’uno dell’altro non può aver ragione.
A differenza di ciò che accadeva a Prometeo durante le  ore notturne, Pesce viene tormentato dai pensieri al primo calar delle tenebre:  viene chiamato, infatti, a dire la verità. Una verità che non viene detta agli  altri ma se stesso. Tale prassi rientra a pieno titolo nell’ambito  dell’estetica dell’esistenza. Per giungere alla verità non è sufficiente il  solo discorso tecnico (il criterio dell‘evidenza cartesiana), poiché è  necessario anche la mediazione delle  passioni. 
  Il suo tormento è destinato comunque ad aumentare col  passare delle ore con l’entrata in scena dei «due  atleti» – l’uno al servizio del  cuore e l’altro della mente –, che si contendono il controllo della sua anima. Questi  ultimi sono i banditori delle opposte vie che dovrebbero consentigli di  afferrare almeno un «briciolo di  vero». Tuttavia se vero che il sentiero  indicato dal cuore è «cieco», è altresì certo che il percorso  indicato dal pensiero è senza «sangue». Da qui la difficolta di chi vuol  mediare fra le esigenze del materialismo francese (il cuore) e le esigenze  dell’idealismo tedesco (il pensiero): le aporie e le ambasce della ragione.
        Con la poesia Ida, Pesce fa i conti col fantasma di sua madre.L’incapacità di suo padre di tornare a vivere a dieci anni dalla  morte di sua moglie spinge il poeta ad evocare la depressione, che aveva portato sua madre al suicidio e alla  successiva disperazione di suo padre: «La  buona mamma da un pezzo riposa / sotto il funebre manto / tra un crisantemo  bianco ed uno rosa; / il babbo invoca con diuturno pianto / l’anima santa della  morta sposa». Da qui l’invito  rivolto a suo padre di accontentarsi di quello che la vita gli aveva già dato  visto che, a volte, «anche senza  sbocciare vizzisce il fiore» e a «non aver terrore dell’età maledetta», poiché occorre comunque vivere malgrado la vita!



